Una pescata all’Argentario
La notte che precede una giornata di pesca in un posto particolare, magari un po’ distante da casa, è spesso caratterizzata da un sonno travagliato, sia per l’eccitazione dovuta alla speranza di chissà quali incontri o catture, sia per il pensiero di non trovare le condizioni meteo marine più favorevoli possibili.
Prima di addormentarci scorre nella nostra mente, come la pellicola di un film ,tutto l’itinerario della giornata successiva e con agitazione ci abbandoniamo tra le braccia di Morfeo, sperando vivamente che il tempo l’indomani non ci giochi brutti scherzi.
E’ giugno, sono le tre e mezzo del mattino, il terribile trillo della sveglia sul comodino interrompe quel breve sonno durato appena tre o quattro ore, intervallato da brevi ed incoscienti risvegli causati dalla paura di non svegliarsi in tempo.
Una veloce sortita nel bagno, camminando al buio come un sonnambulo e, fatte tutte le operazioni di rito, esco da casa, carico l’attrezzatura in macchina e parto verso l’appuntamento con Andrea e Fabrizio che mi aspettano all’uscita del Grande Raccordo Anulare.
Alle quattro siamo in viaggio in direzione Porto S.Stefano.
Al primo autogrill ci fermiamo per prendere un caffè nell’inutile speranza di alleggerire quei due macigni che gravano sulle nostre palpebre; rientriamo in macchina e via.
Andrea viaggia molto spesso per lavoro ed è abituato alle alzatacce; oltre ad avere il piedino pesante sull’acceleratore è molto caloroso e, anche in inverno, tiene sempre l’aria condizionata a palla mentre io, che al contrario sono un po’ freddoloso e allergico al mattino, mi accartoccio ancora di più sul sedile posteriore.
La Via Aurelia a quell’ora è quasi vuota e verso le cinque e venti arriviamo al rimessaggio, sul canale di S. Liberata, dove Andrea tiene il suo Marshall 5,10.
In un attimo siamo fuori della macchina, il sole deve ancora sorgere e non fa per niente caldo sebbene sia estate.
Mentre indossiamo la muta in neoprene spaccato, bagnandola con l’acqua bollente e saponata, la fredda brezza mattutina spazzola la nostra schiena e, sinceramente, rimpiango amaramente di non aver stoppato all’istante la sveglia incartandomi ancora di più nel lenzuolo.
Il momento di depressione è breve e, una volta indossata la giacca in neoprene, riaffiora quell’istinto predatorio che ci ha spinti fin qui.
Finito il rito di vestizione ci mettiamo in movimento.
Il gommone scivola sull’acqua spinto dal silenzioso quattro tempi, ognuno di noi è già proiettato sul luogo di pesca con la mente che fantastica su delle prede che sembrano già a pagliolo.
I fondali dell’Argentario possono regalare grandi emozioni
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Ci siamo! Diamo fondo all’ancora nel lato nord ovest dell’Argentarola e dopo pochi minuti siamo in acqua.
Andrea ed io procediamo in senso antiorario costeggiando l’isolotto mentre Fabrizio, che non ama scendere molto in profondità, andrà per l’altro verso provando qualche agguato lungo la parete.
Arrivati alla punta che guarda il Giglio verso ovest, Andrea fa il primo tuffo mentre io lo controllo dalla superficie, rimanendo attaccato alla parete.
Lo vedo adagiarsi delicatamente su un balconcino di roccia sui 14-15mt di profondità, prima della caduta nel blu, in quel punto infatti la parete sprofonda decisa in verticale ad oltre 40 metri: è un punto buono per il passaggio di qualche bella ricciola.
Un muro di occhiate non molto grandi orbita sull’orlo della caduta ma sembrano molto tranquille, nuotano calme contrastando la leggera corrente che proviene da sud; passano i secondi e mentre Andrea rimane guardingo sul fondo scrutando l’orizzonte la mente mi riporta indietro ad alcuni mesi prima.
Sul medesimo punto, mentre stavo per doppiare la punta, vidi una bella ricciola che dal fondo risaliva dirigendosi proprio sulla mia sinistra dietro la punta, scomparendo velocemente dalla visuale.
Immediatamente feci la capovolta dirigendomi sui massoni sommersi adiacenti lo sperone roccioso, sperando di attirarla ma, mentre stavo ancora scendendo, eccola sbucare di nuovo dalla sinistra, da dietro la punta; non era più sola, era andata a chiamare le sue amiche, erano cinque e tutte belle grandi, pesci di circa venti chili ed incrociavano proprio sulla mia traiettoria ma ancora fuori tiro utile.
Ancora a mezz’acqua, cercai di diminuire la distanza tra me e loro avvitandomi leggermente verso l’ultima, che ormai era l’unica ancora avvicinabile, uno scatto in avanti pinneggiando e lasciai partire l’asta del mio arbalete.
Il pesce era ancora lontano ma l’asta si conficcò ugualmente nella parte bassa del suo ventre, proprio dietro le pinne pettorali, purtroppo un punto molto a rischio di tenuta.
La ricciola colpita partì come un razzo verso il fondo, filando spectra dal mulinello che strideva ruotando vorticosamente, ero consapevole di avere poche probabilità di successo visto l’esito non preciso del tiro e, facendomi il segno della croce, cercai di lavorare il pesce che tirava come un mulo.
Chiamai Stefano, un altro bravo pescatore che quel giorno era in mare con me, nella speranza che potesse riuscire a sparare un altro colpo al pesce.
Sentivo la ricciola sul filo che tirava costantemente e con vigore, sembrava però che le alette tenessero bene, quasi speravo di riuscire a mettere le mani sull’animale visto che di tempo ormai ne era passato: all’improvviso però ecco la calma assoluta.
Era il segno inequivocabile che il pesce, insieme alla mia speranza, se n’era andato liberandosi dall’asta.
Recuperando il filo del mulinello, l’unica cosa che mi rimaneva di quella bella ricciola era un’asta irrimediabilmente piegata e qualche brandello di pelle sull’aletta.
Una bella cernia finisce a pagliolo
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Andrea sta riemergendo; in quella manciata di secondi che ha trascorso sul fondo la vista di quello scoglio mi ha fatto rivivere quella bell’avventura che purtroppo non ha avuto buon fine.
“Niente pesce ‘ esclama Andrea ‘ le occhiate e le castagnole sono troppo tranquille e si tengono molto larghe tra loro”.
Riprendiamo a pinneggiare appaiati e scapoliamo la punta, girando sul lato sud dell’Argentarola; è il mio turno ora, qui sotto ci sono dei massi dove già altre volte avevamo preso qualche bella cernia e, più avanti, catturato bei dentici che qui all’Argentario sono di casa.
Scendendo verso il fondo, cerco di strisciare come un murenone, il più possibile aderente alla parete, nel cavo di una scanalatura verticale che va a morire sulla sabbia 27mt più sotto, proprio vicino ai massoni che mi interessano.
Non appena divento negativo smetto di pinneggiare e poco dopo scorgo una bella cernia, staccata di quattro cinque metri dal fondo, attaccata alla piccola volta di una rientranza sulla roccia: mi vede! Ma è già a tiro e la fulmino quasi’
Certo non sarà un ricciolone ma è pur sempre un pesce di sei-sette chili e, per essere al primo tuffo, non c’è da lamentarsi visto che Andrea borbottando nel boccaglio, mi dice: “Sei sempre il solito sculato”.
Ci spostiamo ancora, rasentando l’Argentarola in superficie; fatti altri trenta metri ci prepariamo per il prossimo tuffo, questa volta scende Andrea.
In questo punto, sul lato che guarda verso sud, il fondale presenta vari sbalzi che scendono più dolcemente, con qualche masso non grandissimo ma sufficiente ad occultarsi leggermente per fare l’aspetto o per offrire riparo temporaneo a qualche cernia.
Non di rado bei dentici pascolano un po’ più sotto, dove la roccia si trasforma in grotto.
Ogni zona qui è legata ad un ricordo o ad una cattura particolare: sono anni che, due o tre volte il mese, c’immergiamo in queste acque.
Andrea fa la capovolta e sparisce sotto la superficie e la mia mente riparte ancora insieme con lui proprio lì sotto, su quella piccola balconata dove va ad appostarsi, e un altro flashback mi riporta indietro nel tempo.
Era una mattina di settembre e purtroppo il tempo non era dei migliori: il mare stava montando repentinamente, le onde formate e corte sballottavano il gommone in maniera fastidiosissima e l’acqua cominciava ad intorbidirsi velocemente, riducendo la visibilità a sette-otto metri, che per pescare a quote un po’ profonde non sono proprio il massimo.
Avevamo percorso 180 chilometri e almeno un tentativo volevo farlo; Andrea mi portò vicino alla parete col gommone e si allontanò più fuori, dove poteva controllarmi senza fare rumore e rischiare di essere spinto sulla parete rocciosa dall’impeto delle onde.
Intorno all’Argentario non mancano le grosse corvine
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Dopo essermi ventilato con difficoltà, a causa dell’acqua che ribolliva e dei continui schiaffoni che l’onda di ritorno dall’impatto con l’Argentarola mi procurava, mi tuffai verso il fondo con decisione visto che da sopra non era possibile distinguere nulla.
Non appena comparve, dalla coltre lattiginosa, il sasso dietro cui dovevo appostarmi arrestai la pinneggiata, planando dolcemente, il fondo su quel sommetto è a circa 25mt.
Non feci in tempo ad appoggiarmi che tre bei dentici si materializzarono dal nulla provenendo dalla destra, proprio dove fortunatamente avevo il fucile puntato.
Il tiro fu facilissimo ma il pesce, insagolato, schizzò via facendo un gran casino e intrecciando il nylon tra alcuni spuntoni di grotto che si trovavano qualche metro più sotto.
Tranquillo per l’esito del tiro a centro corpo e per il fatto di avere il mulinello non mi preoccupai molto, pensai di risalire filando il pesce per poi recuperarlo con calma al tuffo successivo.
Purtroppo le cose non andarono proprio così: fatti i primi sette otto metri verso la superficie, una parrucca di filo blocco inesorabilmente il mulinello, così che fui costretto a mollare il fucile e risalire.
Nel frattempo il mare stava montando a dismisura e sicuramente di lì a poco avremmo dovuto per forza di cose rientrare.
Cercai di ventilarmi con calma, avevo le mire precise per scendere esattamente sul calcio del fucile ma arrivato sul fondo con amara sorpresa non riuscii più a scorgerlo in quel punto; fu così per altre due o tre discese e l’acqua, diventata ancora più torbida, stava affievolendo le ultime mie speranze, ero dispiaciuto specialmente per il fucile al quale tenevo molto.
Provai ancora due o tre tuffi con delle planate verso fuori e, con somma fortuna, durante l’ultimo tuffo intravidi il calcio chiaro del fucile; il pesce seppur ferito si era spostato di una quindicina di metri che, con la visibilità al momento ridottissima, erano tantissimi.
Recuperai il pesce sui quattro chili che giaceva ormai esanime e, non appena riemersi, rientrammo immediatamente verso il canale di S. Liberata sotto la pioggia battente, tra i flutti impetuosi della sciroccata che era ormai entrata nel pieno dell’energia.
Ecco Andrea! Risale filando il mulinello, riportandomi alla realtà del momento, e più in basso l’acqua limpida lascia intravedere le scintille che le squame argentee del pesce arpionato riflettono ai raggi filtranti del sole: è un barracuda e non è male peserà almeno tre chili,
“Che culo! ‘ gli dico sfottendolo ‘ sicuramente l’hai trovato morto sul fondo”.
E’ opinione di molti pescatori subacquei che, quando gira il branco dei barracuda, i dentici si spostino in altre zone, probabilmente perché sono specie concorrenti tra loro nel procacciarsi il cibo.
Ritorniamo verso il gommone ancorato sul lato nord e incrociamo Fabrizio che sta imparando a pescare velocemente, ha nel portapesci alla cintura una bella orata sugli ottocento grammi catturata all’agguato mentre grufolava sulla parete vicino alla superficie.
Soprannominiamo Fabrizio ‘Il rastrellatore’, è in grado di percorrere chilometri di costa strusciando lungo la parete, è più forte dell’erosione del mare, ha ridotto la circonferenza dell’isolotto di qualche metro a forza di girargli intorno, potrebbe ridisegnare nei dettagli una carta nautica della zona con le caratteristiche precise della costa nei minimi particolari.
Un’orata da primato catturata dall’autore dell’articolo
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Il sole è ormai alto sono circa le sette e decidiamo di spostarci più a sud, a Capo D’Uomo.
Qui c’è una bella secca che ha il cappello visibile dalla superficie ma è molto impegnativa, in alcune giornate speciali è un posto che può offrire spettacoli mozzafiato: non è raro incontrarci i tonni.
Il lato sud e il lato sud est cadono quasi a picco verso il fondo anche oltre i quaranta metri, mentre gli altri lati degradano più dolcemente coprendo una maggiore superficie ma muoiono anche loro oltre i quaranta metri; si pesca comunque sempre su profondità un po’ elevate che vanno dai 18-20 metri ai trenta e passa.
Proviamo a fare qualche tuffo ma purtroppo non vediamo una coda e la visibilità non è delle migliori, peccato perché anche qui abbiamo preso spesso bei pesci, soprattutto dentici.
In un mattino di luglio sempre all’alba, dopo aver ancorato il gommone sul sommo, ci eravamo preparati velocemente ed entriati in acqua in silenzio; Andrea si diresse verso il lato ovest, quello che degrada più dolcemente, mentre io avrei provato a fare il primo tuffo a pochi metri dal gommone, proprio sul pianoro che sta sotto il cappello, sul lato nord.
Adagiato sul fondo proprio a fianco del cappello della secca ecco il brancone dei dentici, arrivavano dal lato rivolto verso la costa, tanti e tutti grandi, sicuramente si sentivano sicuri a causa del gran numero che forma il branco, mi puntavano decisi, allargandosi verso i miei fianchi ma sfilandomi vicino.
Sparai al più tonto che quasi voleva baciarmi, uno molto grande che partì a razzo e andando ad infilarsi in una fessura longitudinale che si trova fianco del pianoro, poco sotto al cappello, rimanendo col corpo mezzo fuori.
L’asta doveva avere centrato i suoi centri cromatofori facendolo sbiancare e, guardandolo dall’alto sotto la luce fioca del sole ancora basso, sembrava una busta di plastica incastrata tra gli scogli.
Andrea, che nel frattempo aveva sentito lo schiocco degli elastici, mi aveva raggiunto, “Che hai ammazzato?” mi chiese; risposi: “Ho sparato un sarago in caduta ma ho colpito la busta di plastica che si vede sul fondo della crepa, recuperami l’asta mentre io riavvolgo il mulinello”.
Mentre scende verso l’asta si rese conto che la presunta busta prendeva le sembianze del corpo di un somarone che ormai giaceva senza più reagire e lo riportò su; lo vedevo ridere lasciando uscire aria dalla maschera e facendo un eloquente gesto con le mani per sottolineare la sculata della giornata.
Questa è una delle più belle secche di questa zona: certo è impegnativa perché spesso i dentici dopo i primi tuffi si aggirano quasi esclusivamente intorno alla sua base.
Un’altra volta, scendendo sul lato sud est, sempre verso la costa, arrivato quasi alla base che muore sulla sabbia con alcuni massi poggiati qua e la, vidi il branco dei dentici che pascolava fermo sul fondo, tranquillo come un gregge di pecore; erano parecchi e, tra i tanti che veramente meritavano attenzione, ne sparai uno che, pur essendo un bel pesce, non era nulla in confronto a tanti altri esemplari enormi che lo accompagnavano.
Era il primo che mi aveva puntato deciso e spesso il detto ‘meglio poco che niente’ può essere applicato anche alla pesca, soprattutto con i dentici, anche perché la profondità in quel punto era di circa trentaquattro metri e sicuramente i pescioni non sarebbero stati ad aspettarmi tranquilli e beati al tuffo successivo, era comunque un dentice di circa tre chili e mezzo.
I pelagici sono di casa in queste acque
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Vista l’assenza di pesce interessante decidiamo di spostarci ancora prima che le orde di bombolari invadano i punti più belli di questa zona, sono proprio loro uno dei principali motivi per cui dobbiamo fare le alzatacce nel periodo estivo. Ritorniamo verso Nord e ancoriamo nei pressi di un’altra risalita, la secca del Corallo che da profondità elevata risale fino a pelo d’acqua.
Il Corallo è un po’ più estesa rispetto alla precedente e offre due belle risalite dove spesso girano bei pescioni.
“Oggi non è proprio aria e mi è passata un po’ la voglia di stare in acqua, scendete voi ‘ dico ad Andrea e Fabrizio ‘ “io resto sul gommone a fare da barcaiolo e a prendere un po’ sole, provate a fare qualche tuffo finche’ non arrivano i bombolari”.
Come al solito Fabrizio, che non ama molto la profondità, decide di dirigersi verso la parte che emerge fino alla superficie in modo da potergli dare un’altra bella smussata tutt’intorno; Andrea si sposta più verso ovest, per provare a vedere se almeno qui si riesce a trovare qualche dentice.
Anche questo posto evoca ricordi di belle catture ma soprattutto mi ritorna in mente un mattino in particolare in cui c’era un gran movimento di pesce.
Normalmente uso indifferentemente arbalete o pneumatico ma la sera prima, mentre preparavo la sacca dei fucili nel garage, mi andò l’occhio su un vecchio oleopneumatico che era poggiato sulla parete e chissà perché lo infilai nella sacca insieme agli altri fucili.
Erano diversi anni che non lo usavo, anche se in passato lo avevo adoperato molto spesso e quel mattino decisi di scendere in acqua proprio con quel 100 oleopneumatico.
L’acqua era abbastanza limpida e c’era una marea di castagnole che si schiacciavano continuamente verso il fondo, in modo repentino, come a segnalare un pericolo imminente.
Però, dopo ripetuti tuffi, non ero ancora riuscito a capire cosa spaventasse così tanto le castagnole poiché, a parte qualche bel saragone che si avvicinava un po’ troppo nel raggio d’azione del fucile in modo molto deciso, non avevo avvistato nulla di serio, eccetto percepire il rumore di forti scodate che mi faceva ben sperare.
La cattura di un dentice stavolta è rimasta un semplice desiderio
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Ero sicuro che qualche bel pesce stava cacciando, soprattutto perché ho notato, in tanti anni di esperienza, che quando i saragoni si avvicinano cosi tanto, quasi ad arrivare al contatto, specialmente in questi luoghi dove basta fare la capovolta per vederli volatilizzare, è spesso segnale che ci sono dentici grandi o ricciole nelle vicinanze.
Forse si avvicinano di più al subacqueo pensando che magari possa spaventare gli altri predoni e vedendo che non nutre interesse nei loro confronti, per ovvi motivi, rimangono maggiormente nelle vicinanze.
Riprovai ancora un tuffo e, dopo alcuni secondi che ero sul fondo, ecco le castagnole aprirsi nettamente di fronte a me. Stavano arrivando! Erano due, belli ma non grandissimi, comunque li avevo in mira ma improvvisamente cambiarono direzione e contemporaneamente vidi arrivare, dall’alto verso il basso sulla mia destra, il nonno dei due ragazzi che sfilava davanti a me in modo deciso.
Vederlo e metterlo in mira fu tutt’uno, l’oleopneumatico si brandeggia molto velocemente.
Ormai avevo svoltato la giornata! Il colpo sordo del pistone a fondo corsa del fucile e l’asta partì dritta verso il bersaglio.
Incredibile!! Un pesce enorme, che ad occhi chiusi passava i sette chili, lo avevo padellato alla grande, gli avevo sparato sotto di almeno cinque o dieci centimetri mancandolo clamorosamente.
Inutile dire che avevo portato con me il rosario e lo recitai a dovere durante la risalita verso la superficie.
Quel giorno, sulla stessa secca, mancai un altro dentice non grande ma sempre degno di nota e con lo stesso fucile; eppure con quell’oleopneumatico, che in quel momento avrei disintegrato, ci avevo pescato per tanti anni ed era sempre stato un super fucile col quale sbagliavo raramente mira.
Una voce mi riporta alla realtà, “Non è aria d’annà in Paradiso ‘ dice Andrea mentre risale sul gommone ‘ annamo a recupera’ Caterpillar prima che demolisce tutto lo scojo”.
Recuperato Fabrizio il rastrellatore, ci spogliamo velocemente sotto il sole caldo e puntiamo verso il rimessaggio; sono le undici e mezza e comunque un paio di bei pesci li abbiamo presi ugualmente, anche se un bel denticione sarebbe stato più gradito ma se fosse sempre così facile catturarli’
Prima di ripartire verso casa un bel panino con la caprese non ce lo toglie nessuno e seduti sul belvedere, affacciati sul porto di S. Stefano, ci beviamo la solita birretta che, almeno a me, renderà più tranquillo il ritorno a Roma, procurandomi un buon rilassamento sul sedile posteriore dell’auto.
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