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Una grossa leccia per un piccolo arbalete…

| 15 Gennaio 2005 | 0 Comments

Mariano Satta è un veterano sardo che si allena quotidianamente da sempre. La sua frequentazione quotidiana del mare gli permette, soprattutto a fine stagione, di pescare in sicurezza nell’abisso, oltre i 30 metri. La puntata sui venti metri in solitaria descritta nel racconto è un’azione che l’autore dell’articolo può permettersi solo grazie alla sua preparazione ed alla sua esperienza.
Per l’appassionato medio, al contrario, questo tipo di azione è assolutamente da evitarsi, in quanto durante azioni di pesca a queste profondità, per ragioni di sicurezza, è sempre da ritenersi indispensabile l’assistenza di un compagno pronto ad intervenire sulla verticale o sul mezzo di appoggio
.

Mercoledì 8 settembre 2004. Sveglia alle 5, due merendine al volo, acqua calda nella tanica e via, puntuale, a prendere Franco Meledina, compagno da sempre.
Il viaggio da Olbia dura un’ora buona. Appena arrivati sul posto prescelto, entrambi indossiamo le mute. Secondo uno schema ormai collaudato, lascio Franco e mi sposto un po’ con la macchina, che parcheggio in un punto concordato dove ci ritroveremo a fine pescata.

Raggiunto il luogo prescelto per l’immersione completo la mia vestizione e m’incammino lungo un piccolo sentiero nascosto, che mi permettere di raggiungere una caletta. Con una lunga nuotata mi porto su un ciglio che conosco bene, e con una serie di tuffi inizio a scorrerlo razzolando.

Le ore passano e l’unico pesce che si fa vedere è una grossa orata in lontananza, che si dà precipitosamente alla fuga alla mia vista.
Decido di abbandonare il ciglio e di dirigermi ancora più al largo per visitare una piccola secca. Conosco a memoria le mire a terra, e sebbene si trovi molto al largo riesco facilmente ad arrivare in vista delle prime pietre.

L’acqua si presenta cristallina. Nell’osservare il fondo mentre avanzo controcorrente intravedo delle corvine, che, in fila indiana, guadagnano una tana.
Mi porto sulla loro verticale ed effettuo una planata di perlustrazione. Osservando le pietre vedo una grande presenza di pesce: sotto di me arriva un bellissimo pesce balestra, alcuni saraghi gironzolano in lontananza e, dulcis in fundo, sul lato destro vedo due cernie nei pressi di un grosso masso granitico. La più piccola sarà sui due chili e mezzo, e quindi da lasciar perdere, mentre l’altra più grande la stimo sui sei chili.

Mi ventilo dolcemente, concentrandomi sulla sola cernia più grande e disdegnando momentaneamente il resto delle prede avvistate, ma appena raggiunto il fondo la cernia scoda e si intana in un anfratto. Una volta fallito il tentativo si sorprenderla fuori tana non mi resta che ispezionare la cavità in cui si è rifugiata con la speranza di sorprenderla. Niente da fare, il lungo budello risulta impenetrabile.

Decido allora di ispezionare la tana delle corvine, di conseguenza cambio il fucile. Riposto nella plancia il fido 90, prendo il più maneggevole arbalete da 75 e mi riporto sulle pietre dove avevo visto intanarsi le corvine. Una volta sul fondo mi rendo conto che le corvine sono tutti pesci da pochi etti, ma mentre distolgo lo sguardo dal gruppetto di scienidi noto un grosso marvizzo, che metto a cavetto. Fallito il tentativo di cattura delle corvine mi sposto in cerca dei saraghi avvistati poco più in là.

Mi porto sulla verticale di un altro grosso masso di granito, che offre una grande parte in ombra. Mentre mi ventilo vedo sfilare un grosso barracuda che sparisce di fianco al masso. Appena fatta la capovolta vedo in lontananza una grossa sagoma di un pescione: resta ad un paio di metri dal fondo, che qui è di circa 20. Senza perdere di vista il pescione, mentre punto verso il fondo sposto l’archetto dalla tacca minima alla massima e proseguo il tuffo, lasciandomi cadere a foglia morta. Finalmente distinguo bene i tratti del pesce: si tratta di una grossa e possente Leccia.

A gambe chiuse e completamente immobili mi porto dietro di lei per evitare che veda la mia sagoma, sgancio il piombo mobile ad una decina di metri di distanza per evitare le vibrazioni del sagolone della plancetta e tento l’avvicinamento.

L’azione riesce e riesco a portarla a tiro. I pensieri si accavallano veloci, una serie di decisioni deve essere presa in una frazione di secondo. Sto insidiando una leccia di grosse dimensioni con un piccolo fucile da 75 centimetri, e mi chiedo se sia meglio sparare nel quarto posteriore, in coda, per poi lavorarla col mulinello o attende un attimo per vedere se offre il fianco.
Per un attimo mi decido a sparare al pesce in coda, ma una volta giunto a tiro mi blocco in posizione d’aspetto. Appena mi fermo la Leccia volta il capo incuriosita, mostrandomi tutto il fianco… miro quattro dita dietro l’opercolo branchiale all’altezza della linea laterale e, malgrado sia a circa due metri, scocco il tiro.

L’asta viene catapultata fuori dagli elastici a gran velocità, e un attimo dopo trafigge il grosso pelagico, passandolo da parte a parte. Non faccio in tempo a rendermente conto che la leccia, con una possente reazione, parte via sbobinando quasi l’intero mulinello. La faccio sfogare lasciando andare del tutto i trenta metri di sagolino, e mi metto tra pesce e fucile, come sempre in questi casi.

La Leccia mi trascina via con la sua nuotata possente a stretto contatto con il fondo 20 metri sotto di me. Per non rischiare, decido di assecondare al meglio le sue reazioni, e inizio a nuotare di gran carriera per evitare qualsiasi trazione che possa mettere a rischio la tenuta del pesce.

La Leccia punta verso al largo e dà segno di grande vitalità, sembra non avere accusato per niente il colpo. Nell’inseguire la preda mi rendo conto di essermi allontanato troppo dalla plancetta, e di non avere alcuna speranza di raggiungerla per prendere il 90 e tentare di doppiare la preda. Non mi resta altro che seguire il pesce, nuotando di gran carriera nella speranza di sfiancarlo.
Assecondando la rezione del pesce mi sto allontanando sempre più verso il largo, e solo dopo lunghissimi minuti inizio a vedere un grosso rivolo di sangue fuoriuscire dalla ferita: tento una leggera trazione per vedere l'”effetto che fa”, ma la Leccia immediatamente dà un forte strattone, che la porta a scorrere dal nylon fino sull’asta di acciaio. Riesco a prendere un respiro malgrado il fiatone, e portandomi sotto vedo che l’aletta tiene e la ferita è ancora sufficientemente chiusa.

Risalgo e continuo a nuotare nel tentativo di assecondarla, sta iniziando a rallentare, segno evidente che iniziano a mancarle le forze.
La paura principale è che qualunque tentativo di portarla a galla si traduca nella lacerazione delle carni del pesce da parte dell’aletta dell’asta.
Finalmente, dopo una buona mezz’ora, il pesce rallenta vistosamente ed io approfitto del suo cedimento per riguadagnare metri preziosi di filo.
Per un attimo riesco a guardarmi indietro, la plancetta ormai è fuori vista, devo essermi allontanato di almeno mezzo miglio. Per fortuna il mare risulta deserto, non si vede neanche una imbarcazione, ma provo comunque disagio perché sono abituato a rispettare la legge e a mantenermi a 50 metri dalla boa o plancetta con la bandiera di segnalazione in ogni circostanza.
Mi consolo pensando che se una motovedetta mi trovasse in mezzo al mare attaccato a questo pescione, gli agenti capirebbero bene la situazione e, magari, mi darebbero uno strappo per rientrare.

Recupero filo fino a mettere la leccia in leggera trazione, e finalmente il predone punta verso la superficie. Rilascio filo e la vedo per un attimo girarsi a pancia in su. Sfrutto l’occasione per riguadagnare filo e, tirando leggermente l’asta, porto il pesce verso la superficie. E’ il momento: mi porto vicino alla Leccia, che ha ormai quasi raggiunto la superficie.
Prendo un respiro e vado giù, ma come spingo l’asta per rimettere il pesce in sagola ecco che scatta nuovamente, costringendomi a dare filo.

Valuto per un attimo la situazione: riprendo fiato, scendo di nuovo sul pesce e tento di afferrarla per il peduncolo caudale. Appena gli afferro la coda, il pesce spalanca la bocca: non mi sembra vero e d’istinto infilo la mano dentro le branchie, afferrandole con forza. Riesco ad abbracciarla e a stringerla con tutte le mie forze al petto. La Leccia reagisce con forza scodando ripetutamente, ma non mollo la presa malgrado mi stia letteralmente bastonando sul fianco.

Dopo che il pescione ha esaurito le forze nell’ultimo sfogo, riesco ad impugnare il pugnale e dargli la stilettata per porre fine alle sue sofferenze. Una grande emozione coronava la cattura andata a buon fine: la grossa Leccia era mia.

Dopo aver recuperato la plancetta e aver riguadagnato terra non ho dovuto fare altro che aspettare Franco all’auto per gioire con lui della fortissima emozione e condividere tutti i dettagli della cattura, cosa che spero di essere riuscito a fare anche con tutti i lettori di AM.

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