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The Last Attempt – Il Prologo del libro su Audrey Mestre

| 30 Aprile 2007 | 1 Comment

Dopo aver recensito il libro di Carlos Serra, offriamo ai lettori di Apnea Magazine la possibilità di leggere la traduzione del Prologo di “The Last Attempt”, attualmente disponibile solo in lingua inglese. Si ringrazia Carlos Serra per l’autorizzazione alla ripubblicazione, che ovviamente fa salvo ogni diritto di proprietà intellettuale dello scritto. Tutte le foto che illustrano il prologo sono di Alberto Balbi, presente a La Romana il giorno dello sfortunato tentativo che costò la vita ad Audrey Mestre.

The Last Attempt – Il Prologo

12 OTTOBRE – COLUMBUS DAY (ANNIVERSARIO DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA) – Ora: 14:25

 

Foto: Alberto Balbi

Eccola lì, mentre galleggia in mezzo all’oceano, circondata da imbarcazioni cariche di curiosi del posto. Siamo lo spettacolo del giorno, tutti vogliono osservare da vicino l’evento di cui Audrey è protagonista. In piedi sul bordo della fiancata di un grosso Catamarano, con un megafono cerco di tenere quelle piccole barche e le loro minacciose eliche lontano da lei.
Di solito il Catamarano è utilizzato per guidare i turisti alla scoperta dell’ambiente tropicale lungo la costa sud orientale della Repubblica Dominicana, ma oggi serve come base operativa di un evento di caratura internazionale: un tentativo di record mondiale nella disciplina estrema dell’immersione in apnea.
Sopra la testa di Audrey, coperto di nubi, si staglia un cielo sinistro e spaventoso, che solo pochi minuti fa ruggiva come migliaia di leoni infuriati all’unisono. Sotto i suoi piedi, un oscuro abisso di desolazione e silenzio: l’oceano e la sua bellezza solitamente seducente, oggi decisamente più minacciosa che invitante.
Il temporale sta ormai passando, ma ciò che resta della potenza della natura sta ancora trascinando la sua coda di oscurità e tristezza sopra di noi. Non è certamente il giorno migliore per immergersi nel blu dell’abisso e rivendicare un record di immersione in apnea, soprattutto dal momento che la profondità obiettivo supera di molti metri quella mai raggiunta da un essere umano.
Persino un delfino che osservasse Audrey scendere a quella profondità potrebbe chiederle “Sei impazzita?”. Lei non capirebbe quel delfino, ovviamente. Forse un giorno, se i ricercatori continueranno a studiare i nostri cugini di mare, noi umani potremmo imparare a decifrare il loro linguaggio, ma dubito che i delfini comprenderanno mai gli esseri umani, dato che solo la pazzia può spiegare certi nostri comportamenti.
In ogni caso, Audrey non si trova nella migliore condizione mentale per una simile impresa. E’ triste come questa giornata. Meno di trenta minuti fa stava piangendo e riflettendo sulla possibilità di lasciare suo marito; per un’impresa che richiede la concentrazione di un vecchio monaco tibetano, i pensieri di divorzio costituiscono certamente un elemento di disturbo.
Nelle ultime due settimane Audrey ha dovuto sopportare una serie infinita di stranezze e atteggiamenti irrazionali del marito. Una di queste stranezze è, di fatto, quella di far tentare il record ad Audrey in condizioni meteorologiche nient’affatto ideali. Lui non è solo suo marito, ma anche il suo allenatore e l’attuale detentore del record di immersione che lei si accinge a battere. Sebbene io sia il presidente dell’azienda che ci vede soci e che organizza l’evento, in questo tentativo di record è lui che prende ogni decisione.

 

Foto: Alberto Balbi

E’ fatto così, non c’è niente da fare. E’ il suo modo di essere, ed il modo in cui sempre sarà. Di questo modo di agire ha fatto il suo marchio distintivo, ed è ben conosciuto per questa sua caratteristica. E’ impetuoso, imprudente, e ciò che è peggio è che nessuno lo contraddice.
A questo punto avevo già avuto la mia buona dose di scontri verbali con il mio socio, ma sentendomi solo in un’insensata crociata solitaria volta a portare un po’ di buon senso nella sua esistenza e a tenere sotto controllo la sua testa calda, avevo smesso di discutere con lui e deciso di svolgere con diligenza il compito di limitare i danni, ripulendo i casini prodotti dal passaggio della sua turbolenta personalità. Lui è come un treno carico di esplosivo in piena corsa: puoi sederti, allacciare la cintura di sicurezza e farti il giro della vita o saltare giù a tuo rischio e pericolo; ma non metterti mai sul suo cammino, perché le conseguenze potrebbero risultare molto sgradevoli.
E’ sua moglie Audrey quella sulla slitta, sulla quale si immergerà fino a 171 metri di oscurità e pressione schiacciante. E’ come saltare da un balcone posto al cinquantasettesimo piano di un palazzo, solo che la costruzione è sommersa nell’oceano. Questa specialità di apnea consiste nell’immergersi con una slitta zavorrata lungo un cavo verticale, verso il fondo del mare. Una volta che la slitta raggiunge il termine del cavo alla profondità stabilita, l’atleta sgancia la sezione inferiore della slitta (la parte zavorrata), e si proietta come un razzo verso la superficie riempiendo d’aria un pallone collegato alla parte superiore della slitta. La manovra viene eseguita grazie ad una piccola bombola piena di aria compressa, simile a quelle usate per l’immersione con autorespiratore.
A causa della resistenza offerta dalla pressione idrostatica, la caduta verso il fondo è come una lenta agonia: non puoi respirare finché non raggiungi la fine del cavo e ritorni in superficie. Sul fondo devi resistere alla schiacciante pressione dell’oceano, i polmoni vengono compressi fino a diventare delle dimensioni di un’arancia. Le orecchie, in una lacerante sofferenza, sono pronte ad esplodere; per tacere dell’opprimente desolazione sul fondo, dove non c’è nient’altro che oscurità e silenzio.
Inoltre, devi anche sopportare la bassa temperatura di un luogo in cui le creature a sangue caldo non dovrebbero trovarsi. Prima che il tuo corpo collassi a causa delle condizioni estreme di quell’ambiente, devi tornare in superficie e ripercorrere ancora, questa volta a ritroso, l’intera distanza dei 57 piani.
Passeranno oltre tre minuti prima che lei possa nuovamente inalare ciò che noi diamo per scontato, quell’aria che ci permette di vivere. Trattenendo volontariamente il fiato, Audrey deve resistere al bisogno di inspirare, che si manifesta quando il cervello impartisce al diaframma l’ordine di espandere i polmoni e inspirare: se cedesse anche per un attimo, morirebbe annegata. Tre minuti sembreranno un’eternità.

 

Foto: Alberto Balbi

Sarà una battaglia costante tra il cervello, con i suoi riflessi istintivi, e la mente cosciente di Audrey. Le forti contrazioni diaframmatiche comandate dal cervello a corto di ossigeno sono una richiesta ai polmoni di espandersi e respirare, ma devono essere ignorate per evitare l’annegamento. E’ un vero tormento, come ricevere una serie di pugni al plesso solare da un peso massimo del pugilato, solo che’ nel frattempo stai anche soffocando.
La vita ti attende in superficie, ma mentre ti trovi sotto il pelo dell’acqua non fai che flirtare con la morte. Non è certo un compito facile, ma lui è il campione mondiale, così come lo è lei: tutti e due conoscono i rischi meglio di me, spero, ma la cosa continua comunque a non piacermi.
Qualche giorno prima ero terribilmente preoccupato per l’incolumità di Audrey. Ormai sono diventato più che il semplice socio di suo marito, sono uno dei suoi amici più cari ed il suo confidente. La conoscevo bene, sapevo quanto il suo animo fosse fragile, ma sapevo anche quanto potesse mostrarsi determinata per dimostrare il suo valore di fronte a lui.
A rischio di pagare con la sua stessa vita, Audrey aveva continuato ad accettare eccessivi aumenti di profondità durante gli allenamenti. Aggiungendo decine di metri al suo precedente tuffo di allenamento, lui l’aveva spinta con troppa violenza ed io ero l’unico a tentare di impedirgli di spedirla ancora più in profondità.
Questa è una specialità di apnea chiamata No-Limits; stupidamente, perché, dopo tutto, un limite c’è. Determinare dove sia esattamente questo limite può trasformarsi in un’impresa per cui morire.
Il mio livello di stress era ormai giunto a livelli altissimi, specialmente a causa del fatto che Audrey accettava passivamente i drastici aumenti di profondità decisi da suo marito. Quando avevo tentato di oppormi con fermezza, gli occhi di lui si erano trasformati nello sguardo insensibile di una tigre, il gelido sguardo fisso di un predatore. Era un aspetto familiare: sapevo di essere sceso dal treno e di essermi piazzato sui binari, proprio sulla sua corsa.
Avevo intenzione di fermarlo, e almeno questa volta aveva funzionato. Dopo un’altra accesa discussione aveva acconsentito ad aggiungere un solo metro -e non dieci- alla misura ottenuta da Audrey durante l’ultimo tuffo di allenamento. Il tentativo di record ufficiale avrebbe avuto come obiettivo 171 metri e non 180 come lui avrebbe voluto. Il mio livello di stress era così tornato entro parametri gestibili.

 

Foto: Alberto Balbi

Mentre osservo Audrey salire sulla slitta, alcune delle circostanze appena menzionate si affacciano nei miei pensieri, ma ho bisogno di concentrarmi, ho dei compiti da svolgere. In qualità di giudice del record, devo controllare i due cronometri che misureranno discesa e risalita di Audrey.
Per darle un minimo di silenzio e permetterle di concentrarsi, devo cercare di mantenere la calma fra gli spettatori, ma anche solo tenere le loro barche a distanza di sicurezza si sta rivelando molto impegnativo.
Audrey mi rivolge uno sguardo, che ricambio. La sua espressione svela la profonda depressione in cui si è già immersa. Vorrei offrirle una spalla su cui piangere, come ho fatto molte volte in passato, ma non adesso. Abbiamo un evento internazionale da portare a termine. La pressione è eccessiva. Reporter provenienti da diversi angoli del globo si trovano sul posto per comunicare la notizia, buona o cattiva, al rispettivo quartier generale. L’instabilità mentale di Audrey dovrà attendere.
Facendo un cenno con il capo mi dà il segnale, così inizio il conto alla rovescia. Fra cinque minuti si immergerà nell’oceano. Questo conto alla rovescia la aiuta a dare il giusto ritmo alla ventilazione che precede il tuffo, e permette ai sommozzatori di assistenza di coordinarsi ed immergersi nel blu per assicurarle protezione.
Quando mancano cinque minuti, Audrey inizia la sequenza di ventilazione. A meno quattro minuti i sommozzatori iniziano ad immergersi per andarsi a posizionare lungo il cavo guida. Il più decisivo fra i sommozzatori di assistenza è Pascal, che si immergerà più a fondo di tutti, al termine del cavo. Se qualcosa dovesse andare per il verso sbagliato, quello è il posto in cui potrebbe accadere, il punto più lontano dalla superficie.
Solo poche persone al mondo sono in grado di immergersi a simili profondità, ma Pascal, di natali francesi come Audrey, è sicuramente il migliore. Se il meccanismo di sgancio della slitta fallisse il rilascio della sua parte superiore collegata al pallone da riempire d’aria, come accaduto tre anni prima in Spagna, lei potrebbe ottenere un erogatore da Pascal e respirare dalle sue bombole. Con lui sul fondo, dovrebbe essere al sicuro.
Sopra Pascal, appostato a 90 metri di profondità, c’è Eduardo Orjales. A chiamarlo per nome, però, non si ottiene una pronta reazione. Risponde molto più in fretta se lo si chiama con il suo soprannome: Wiky.
Nato a Cuba, Wiky è un altro valido sommozzatore molto legato a Audrey. Sebbene non siano in alcun modo parenti, si chiamano nipote e zio. Wiky ha prestato assistenza ad Audrey nei suoi tentativi di record nel corso degli ultimi cinque anni, e da oltre quattordici anni fa la stessa cosa con i tentativi di suo marito.

Foto: Alberto Balbi

Sono preoccupato anche per lui. Si trova a novanta metri di profondità e sta respirando aria invece della più sicura miscela di gas chiamata Trimix, la stessa che sta utilizzando Pascal. La sera prima, a Wiky è stata negata questa possibilità. Perché? Non molti sommozzatori al mondo si azzarderebbero a tale profondità respirando solo aria. Anzi: non molti sommozzatori al mondo si azzarderebbero a tale profondità, punto. Ma il sempre fidato Wiky si è conformato agli ordini con rassegnazione.
Quando manca ormai un solo minuto, tutti i sommozzatori di assistenza devono già trovarsi in postazione, inclusi gli apneisti che restano in superficie. Anche loro sono essenziali per garantire la sicurezza di Audrey: una volta raggiunto il piattello sul fondo, il luogo in cui più probabilmente il suo fisico può cedere è nei pressi della superficie. Proprio come un’auto rimasta senza benzina, a pochi metri dalla superficie il cervello potrebbe aver terminato la riserva di ossigeno e smettere di funzionare. Questa condizione porta il nome di “sincope” e senza la pronta assistenza degli apneisti potrebbe determinare l’annegamento di Audrey.
Ecco che sorge un nuovo motivo di preoccupazione: il mio partner ha sottratto due sommozzatori ai loro doveri di assistenza per destinarli alla ripresa video del tentativo. Perché? Abbiamo già effettuato tutte le riprese di cui avevamo bisogno il giorno prima, in due tuffi simulati a soli 50 metri di profondità. Questo anche per permettere a tutti i sommozzatori disponibili di concentrarsi sull’assistenza a Audrey. Ma ancora una volta, è lui: il mio partner e le sue illogiche scelte che compromettono la sicurezza senza alcuna apparente ragione.
Non mi metto a discutere su questa scelta, se qualcosa deve accadere è più probabile che si verifichi sul fondo, al termine del cavo, o vicino alla superficie, ed entrambe le zone sono coperte. Il mio socio aveva ordinato a questi due sommozzatori di effettuare riprese tra i 30 ed i 60 metri di profondità; non succede mai niente a quelle quote, almeno così pensavo.
Al termine del mio conto alla rovescia, Audrey prende un’ultima, profonda boccata d’aria. Come un bidone aspiratutto industriale, inspira con forza. Dal momento che quello sarà l’ultimo respiro per un bel po’, deve riempire i polmoni al massimo della loro capacità. Estende verso l’alto il suo braccio sinistro e afferra la valvola della piccola bombola di aria compressa fissata in cima alla slitta. Nell’ambiente della subacquea, questa piccola bombola è conosciuta con il nome di “pony-tank”.
Con la sua mano destra Audrey si stringe il naso e contemporaneamente soffia, creando pressione nella sua bocca. Questa manovra è chiamata Valsalva, in onore dell’anatomista italiano Antonio Maria Valsalva, che scoprì i benefici di questa tecnica di compensazione della pressione. Si tratta di tentare un’espirazione relativamente forzata tenendo naso e bocca serrati, in modo da compensare dall’interno la spinta esercitata sulle membrane timpaniche dalla pressione idrostatica. Questa manovra deve essere effettuata in modo continuo durante la discesa, altrimenti l’immensa pressione dell’oceano finirebbe per sfondarle i timpani, causando vertigini incontrollabili. Potrebbe addirittura cadere dalla slitta.

 

Foto: Alberto Balbi

Con i polmoni completamente riempiti d’aria, adesso Audrey chiude gli occhi e fa un cenno di assenso con il capo. E’ un segnale per il suo marito ed allenatore, che galleggia di fianco a lei e che subito afferra una corta cima con un fermaglio all’estremità. Tirando la cima, sgancerà la slitta dal meccanismo che la trattiene in superficie.
Tira la cima una volta, ma non succede niente. Tira una seconda volta, ma lei rimane in superficie. E’ come se il suo angelo custode stesse cercando di manomettere il meccanismo per impedire ad Audrey di immergersi, forse è un segno del Cielo?
“Cos’è che non va?” mi chiedo. “Non fallisce mai nel liberare la slitta dopo il primo strattone. Sta sprecando tempo!”
A questo punto Audrey sta già trattenendo il respiro, consumando ossigeno e sprecando secondi preziosi che potrebbero fare la differenza tra un record riuscito ed una sincope a pochi metri dalla superficie. Le regole internazionali prevedono che la perdita di sensi in superficie decreti il fallimento del tentativo di record.
Tira la corda per la terza volta, e finalmente la slitta è liberata; Audrey si avvia a conquistare la gloria battendo il record detenuto dal marito. Solo una volta prima di allora, tredici anni prima, una donna ha battuto un record maschile. Fra soli tre minuti dovrebbe essere di nuovo in superficie e tutti faremo festa.
Una volta giunta alla massima profondità, l’apertura della valvola della pony-tank le permetterà di rilasciare aria compressa nel pallone di risalita. Poi dovrebbe venire su come razzo verso la superficie con il tubo cui il pallone è collegato, scorrendo sul cavo che si estende verticalmente come su una guida.
Solo che sono già trascorsi due minuti e non riesco a percepire la risalita di Audrey. A bordo del Catamarano sto aggrappato al cavo su cui la slitta sta scorrendo. Utilizzando un boma dell’imbarcazione abbiamo realizzato una sorta di gru, ed io sto afferrando il cavo vicino al punto in cui è fissato alla barca.
L’ho sempre fatto. Lo scorrere della slitta sul cavo trasmette chiare vibrazioni lungo tutta la sua estensione, permettendomi di percepire la sua discesa. Posso persino sentire l’impatto della slitta a fine corsa, e la più intensa vibrazione della risalita.
A questo punto Audrey dovrebbe già essere lanciata come un razzo verso la superficie, ma sono già passati più di tre minuti e di lei non c’è alcuna traccia. Già me lo sento, qualcosa sta andando male, terribilmente male.

 

Foto: Alberto Balbi

Lui è ancora in superficie, tra un’imprecazione e l’altra chiede il gruppo di immersione che ha fatto assemblare in precedenza. Questo particolare aveva già richiamato la mia attenzione: perché richiedere l’assemblaggio di un kit di immersione? Certamente, Pipin può risultare più determinante come apneista di assistenza in superficie che non come sommozzatore. Adesso, però, sono lieto che abbia previsto la possibilità di utilizzare la bombola, almeno può scendere a vedere cosa sta accadendo sul fondo.
Con i minuti che diventano interminabili, quasi fossero ore, attraverso l’acqua vedo una figura distorta di colore giallo dirigersi verso la superficie, deve trattarsi della muta di Audrey. Accanto alla figura gialla, ce n’è un’altra, ugualmente distorta ma di colore scuro: probabilmente è la muta di Pipin. Le bolle rompono la superficie dell’acqua, per un attimo penso che lei sia in salvo e che stia respirando da un erogatore, magari quello del marito. Il tentativo di record è fallito, ma l’unica cosa che importa adesso è che lei stia bene. Quando le due teste spuntano dall’acqua, però, la visione è terrificante.
Esattamente dopo 8 minuti e 38 secondi, Audrey riemerge. Non sta respirando. Si tratta di un tempo eccessivo, il cervello di un essere umano non può sopravvivere ad uno stato di anossia così protratto. Lui la sorregge da dietro, ma nella bocca di lei non c’è nessun erogatore. Avevo sperato di vederla respirare da un erogatore, ma purtroppo non è così. Le bolle che avevo visto erano quelle prodotte da Pipin.
Una bomba esplode nella mia mente, il corpo di Audrey non presenta alcun segno di vita. Spero che sia solo incosciente, magari in sincope, ma poi vedo un segno orribile. Un fluido schiumoso le esce dalla bocca, scivolando lungo il suo mento. Ha inalato acqua, i suoi polmoni ne sembrano pieni.
Per alcuni secondi resto senza parole, sto anche io contribuendo all’assurdo silenzio che regna da qualche istante. Forse dipende dal fatto che in un tale stato di shock non riesco a sentire alcun suono. In un attimo, però, la realtà mi colpisce duramente. Vedere Pipin che tenta un’inutile respirazione bocca a bocca mi risveglia da questo torpore surreale.
“Portatela qui”, grido. “Portate Audrey sulla barca!”

 

Foto: Alberto Balbi

Dieci minuti dopo aver iniziato la discesa, Audrey viene tirata a bordo e stesa sul bordo dell’imbarcazione. In ginocchio dietro di lei, le sorreggo la testa con entrambe le mani. Mentre lei rantola, cercando disperatamente di respirare, provo a liberarle le vie aeree, ma fiotti di schiuma tinta di sangue continuano ad uscirle dalla bocca, scivolando sulla mia mano sinistra. L’aria non può passare attraverso la massiccia quantità di fluido schiumoso rosa che sta cercando di espellere. L’oceano le ha inondato i polmoni.
“Come è possibile? Perché così tanta acqua?”
Controllo le pulsazioni della carotide e sono forti; questo è un buon segno. Sta provando a respirare, e questo è un altro buon segno. I suoi occhi sono semiaperti, e mentre le estendo il capo per aprire al massimo le vie aeree sembra fissarmi. Le sue pupille non si dilatano e so già cosa significa: il cervello ha ceduto, ma giuro su Dio che posso sentire un grido provenire direttamente dalla sua anima. I suoi occhi vorrebbero parlare, raccontare una storia. Ma quale storia?
“Come è possibile? Dio, cosa è successo?”
La risposta si sarebbe fatta attendere per lungo tempo.
“Questo non può essere vero. Audrey, per favore resisti!”
Ma è solo il cuore che contraddice la ragione. La condizione di Audrey è irreversibile, sebbene io mi rifiuti di accettarlo. Lui le sta accanto, in silenzio. Mi fissa e non mi piace ciò che vedo. Non so cosa fare, provo a confortarlo con la buona notizia della pulsazione ancora forte, ma so che non durerà a lungo.
Il battito inizia a dissolversi, ed anche il riflesso del respiro viene meno. Sebbene alcuni di noi stiano lavorando con lena per riportarla indietro, tutto è ormai compiuto, per lei non c’è più alcuna speranza.
Questo ultimo tentativo ha concluso prematuramente la vita di Audrey, e con essa anche i suoi sogni. Per alcuni di noi, invece, l’incubo era appena iniziato.

Traduzione e redazione: Giorgio Volpe

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Commenti (1)

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  1. stefano ha detto:

    STORIA struggente che mi ha profondamente colpito.Un sesto senso mi dice,che tra il “grande”amore del cubano per la mestre,e la versione secondo me veritiera di carlos serra,la verita’ si riveli proprio nel libro di carlos serra.Un grande amore ti fa’ stare il piu’ attaccato e protettivo possibile verso lei/lui,e il comportamento di pipin tendente a spingerla sempre piu’ in fondo ,anche a sua insaputa,manifesta non certo questo sentimento,o una grandissima irresponsabilita’ e stupidita’ da parte di pipin.CHE DIO ABBIA NEL SUO REGNO LA DOLCE AUDREY,il cubano mi suscita una grande rabbia,molto grande.

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