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Pesca in apnea, una disciplina incompresa

| 15 Marzo 2003 | 0 Comments

© Apnea Magazine

La pesca in apnea è sicuramente una disciplina incompresa. Forse la colpa della sua scarsa popolarità deriva dalla scomoda eredità lasciata al pescatore apneista moderno dalle generazioni di fucilieri con bombole in spalla. Forse dipende dal fatto che il conto per le scorribande irresponsabili di pochi pirati del mare alla fine è stato presentato alla categoria sbagliata… o forse è l’immagine stessa della cattura di un pesce con il fucile che ci attira le antipatie di alcuni animi sensibili, che però, a ben vedere, non restano turbati dalla visione quotidiana di animali fatti a pezzi ed esposti sui banchi del supermercato.

In ogni caso, con il passare del tempo l’atteggiamento delle istituzioni nei confronti di questa nobile disciplina è sempre più di sostanziale condanna. Uno sguardo ai decreti istitutivi delle Aree Marine Protette degli ultimi anni non lascia alcun dubbio: a differenza di altre forme di pesca sportiva, la pesca in apnea è sempre più spesso esclusa dalla zona C già a livello di decreto istitutivo, ossia di Ministero. Questo fatto sembra implicare un’anticipazione del giudizio di (in)compatibilità di questa forma di pesca con le esigenze di tutela dell’ambiente: mentre in alcune AMP di istituzione meno recente questo giudizio veniva affidato all’Ente Gestore, evidentemente in grado di valutare in modo più approfondito le esigenze particolari dell’area marina, negli ultimi tempi la pesca in apnea viene tagliata fuori “ab origine”, direttamente con il decreto istitutivo.

Onestamente, viene da chiedersi su quali motivazioni e su quale documentazione scientifica si basi questa anticipazione del giudizio. Dato che la pesca in apnea è una forma di pesca sportiva soggetta agli stessi limiti di cattura previsti per la pesca di superficie, questa discriminazione non può evidentemente dipendere da un problema di pressione di pesca o di “minaccia” dello stock ittico. Anche il richiamo alle “specie obiettivo” non ha alcun senso: al contrario delle altre forme di pesca sportiva, la pesca in apnea si svolge con una sequenza “individuazione della preda – tentativo di cattura” che rende possibile una regolamentazione anche molto particolareggiata. Ma proibire non è regolamentare. Proibire significa punire, privare dei liberi cittadini del diritto di fruizione di tratti di costa per motivi di difficile comprensione. Le domande che mi pongo sono quelle di tanti altri appassionati: perché lo Stato ritiene di dover penalizzare la pesca in apnea in modo così severo?

Nel Libro Bianco predisposto dalla FIPSAS, il dottor Antonio Terlizzi (ricercatore presso il Laboratorio di Biologia Marina del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali dell’Università di Lecce e coinvolto nel progetto di ricerca ministeriale AFRODITE gestito dall’ICRAM, l’Istituto per la Ricerca Scientifica Applicata al Mare) chiarisce i contorni di questa scelta. L’esclusione della pesca in apnea sembrerebbe riconducibile al cd “principio di precauzione”, in base al quale, in assenza di prove scientifiche, si proibisce comunque un’attività anche solo potenzialmente dannosa, in attesa di una prova contraria. Ma dopo aver rilevato che anche per le altre forme di pesca sportiva ammesse in zona C manca una documentazione scientifica in grado di escluderne la dannosità, il dott. Terlizzi conclude che l’esclusione della pesca in apnea debba essere considerata frutto, né più né meno, di un pregiudizio.

Il senso di frustrazione, privazione e sconfitta che assale il pescatore in apnea ogni volta che un’ulteriore fetta di mare gli viene interdetta è difficile da raccontare. E’ comprensibile che la massa di appassionati inizi a chiedersi come tutto questo possa accadere e che la frustrazione si traduca in voglia di riscatto.

Onestamente, non credo che si possa ribaltare questa situazione con un colpo di mano legislativo o con una protesta vibrante. Ciò di cui abbiamo bisogno sono evidenze scientifiche sul reale impatto della pesca in apnea, prove concrete da spendere nelle sedi opportune per togliere ogni punto d’appoggio all’applicazione del principio di precauzione che attualmente ci taglia fuori dalle aree C delle AMP. Per fare questo, abbiamo bisogno di un’ unità d’intenti di tutta la categoria dei pescatori in apnea, senza distinzioni prive di alcun senso, come quella, proposta da alcuni, tra pescatori agonisti e amatoriali. Parlare di interessi degli agonisti come un quid diverso dagli interessi degli amatoriali è fuori luogo: gli agonisti sono tali solo nelle poche manifestazioni sportive che li vedono protagonisti, mentre nella vita di tutti i giorni sono pescatori sportivi amatoriali come tutti gli altri. Abbiamo bisogno di unire tutte le risorse umane ed intellettuali che la categoria può esprimere e sfruttare ogni canale d’ interazione con le istituzioni. Abbiamo bisogno di coinvolgere le aziende del settore, che potrebbero offrire un contributo concreto per finanziare una ricerca mirata, nel loro stesso interesse. Abbiamo bisogno di associare a queste operazioni le valutazioni economiche di esperti riconosciuti, affinché mettano nero su bianco l’indotto complessivo della nostra attività: un pesce preso in apnea vale bel più di una muta, due pinne, una maschera ed un fucile. I pescatori in apnea si spostano in auto, vanno al ristorante, pernottano in camping e alberghi, si muovono con gommoni, consumano benzina e miscela, utilizzano ecoscandagli ed altre attrezzature ed accessori nautici, vanno a prendere un gelato. Lo farebbero comunque, anche senza pescare? Sì, ma altrove.

Una parte di appassionati si è convinta che la responsabilità di questa situazione incresciosa sia da attribuire all’inattività della FIPSAS, che a torto si suppone rea di aver barattato i diritti della nostra categoria in cambio di vantaggi a favore dei pescatori di superficie. La rabbia è perfettamente comprensibile e di sicuro la FIPSAS può e deve fare di più per tutelare la pesca in apnea, ma onestamente credo che in questo momento la parola d’ordine debba essere una sola: cautela.

Si guardi a cosa è appena successo in Francia: stessa rabbia, stessa voglia di riscatto, un progetto di abbandonare la federazione nazionale per creare una nuova federazione interamente dedicata alla pesca in apnea. La vicenda della FNPSA, nata qualche mese fa in polemica con la federazione francese FFESSM, deve insegnarci qualcosa. Anche se promossa da alcuni dirigenti della FFESSM e sostenuta dai più forti agonisti francesi, la nuova federazione ha visto naufragare il proprio disegno nell’arco di pochi mesi. L’esclusione dalle competizioni internazionali in un primo tempo ed il mancato riconoscimento governativo poi, hanno di fatto ridimensionato se non azzerato tutti i progetti della neonata federazione, che a quanto pare non rappresenterà né i pescatori amatoriali né gli agonisti, almeno non in modo efficace.

La pesca in apnea è una disciplina incompresa che sta vivendo un momento difficile. Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, e onestamente non ho una ricetta vincente da proporvi. Ma di una cosa sono più che certo: maggiori saranno la consapevolezza, la preparazione e l’unione della categoria e maggiore sarà la probabilità di trovare una via d’uscita e restituire dignità a questo splendido sport.

Category: Editoriali

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