L’Agguato Profondo: Istruzioni per l’Uso
di Fabio Bertuccio
Pur esercitando l’attività di istruttore da diversi anni, invito i lettori ad interpretare quanto seguirà non come una “lezione”, ma come la descrizione del modo in cui un appassionato come tanti interpreta quella tecnica di pesca subacquea, tanto affascinante quanto impegnativa e pericolosa, chiamata “agguato profondo”. Per le lezioni ed i maestri, invece, ritengo che le sedi opportune siano quelle dei corsi specifici, perchè è lì che l’insegnante viene scelto dall’allievo, nel rispetto di quello che secondo me dovrebbe essere “l’ordine naturale delle cose”.
Credo anche che avrebbe poco senso parlare di agguato profondo (probabilmente la tecnica di pesca subacquea più impegnativa che esista), rivolgendosi ad un neofita, quindi mi sembra ovvio che la tipologia di lettore di riferimento sia colui che già ben conosce i principi fondamentali dell’agguato in acqua medio-bassa, condicio sine qua non per poter pescare in questo modo diversi metri più in profondità.
Spesso si è soliti dire: “ho preso un pesce all’agguato”, ma secondo me questa frase, 9 volte su 10 non è corretta. Per “agguato” io intendo fondamentalmente uno spostamento condotto a stretto contatto col fondo, da un punto A ad un punto B. In linea di massima, dopo quello spostamento, l’eventuale cattura si concretizza con altre tecniche, come l’aspetto, la tana, la caduta, il tiro d’imbracciata o quello piazzato. Tuttavia è proprio la componente dinamica dell’agguato a rendere più o meno efficace la nostra azione, nonchè impegnativa questa tecnica.
Io distinguo l’agguato in due forme: quello di avvicinamento al pesce e quello di ricerca. Nel primo caso, lo spostamento sul fondo avviene dopo aver individuato la potenziale preda, oppure come se l’avessi già avvistata e pescassi dove so con esattezza in che punto potrei trovare un bel pesce. Nel secondo, invece, non ho ancora avvistato nulla e lo spostamento mi serve per studiare la situazione e cercare il pesce. Se le circostanze lo richiedono, e l’apnea lo consente, i due tipi possono coesistere nel momento in cui quello di ricerca si evolve in quello di avvicinamento per finalizzare la cattura. Il tutto fermo restando che nella pesca profonda si tende ad economizzare al massimo gesti e gli spostamenti, quindi non è possibile eguagliare i tragitti che si possono condurre in poca acqua.
La lunghezza di un agguato può essere influenzata da vari fattori: il primo può essere proprio la finalità, di ricerca o di avvicinamento. Quando si è avvistato un pesce si può stabilire a priori quanto sarà lungo il proprio agguato e, compatibilmente con la necessità di potersi spostare al riparo di ostacoli che ci occultino alla vista della preda, si tende a scegliere la via più breve. Durante un agguato “di ricerca”, invece, si potrebbero eseguire gli spostamenti più lunghi in assoluto, sia perché non è dato sapere se e dopo quanto avvisterò pesce, e sia perchè dopo il tragitto che conduce all’individuazione della preda, ci si potrebbe anche avvicinare al pesce e quindi spostare ulteriormente.
In profondità io preferisco eseguire agguati di avvicinamento a pesci magari visti durante la discesa, oppure nel tuffo precedente, al limite di visibilità, o ancora “alla cieca” ma sempre in posti conosciuti ed in cui so dove potrei trovare qualcosa di interessante. Potendo, evito gli agguati di ricerca, potenzialmente più lunghi, faticosi e pericolosi, preferendo a questi l’osservazione fatta durante la discesa (che nell’agguato profondo può durare diverse decine di secondi sia per le profondità considerevoli che si raggiungono, che per la lentezza che dovrebbe caratterizzare ogni discesa nelle tecniche da acqua libera) o una planata a mezz’acqua. Per lo stesso motivo durante le ricerche che comunque mi può capitare di eseguire, cerco di rispettare una regola: risalire prima di aver avvistato pesce qualora ritenessi che, se lo vedessi, non avrei sufficiente autonomia per avvicinarlo (o farlo avvicinare) nello stesso tuffo.
La ragione di questa regola è semplice: se non si avesse abbastanza apnea per concretizzare l’azione di caccia, toccherebbe risalire, ma fare questo col pesce a vista significherebbe spaventarlo e non trovarlo al tuffo successivo, nove volte su dieci. Se quindi stessi pescando all’agguato e ad un certo punto, durante una fase di ricerca, mi rendessi conto che se vedessi un pesce al limite della visibilità (supponiamo ce ne siano 15 metri) non avrei un’apnea abbastanza lunga per coprire lentamente quella distanza, risalirei, anticipando un’eventuale risalita col pesce a vista. Se l’anticipo di cui sopra non mi dovesse riuscire, perché magari ho già avvistato pesce al limite di visibilità, cercherei di indietreggiare fino a non vederlo più, ed a quel punto risalirei. Da quanto appena scritto si capisce che un altro fattore che può determinare la lunghezza di un agguato, è la visibilità. Generalmente più l’acqua è limpida, più lunghi saranno gli agguati, mentre al contrario più è torbida, più gli spostamenti si accorceranno. L’esigenza di ridurre al minimo i consumi in profondità mi fa preferire condizioni di visibilità non eccezionale, diciamo non superiore ai 10-12m, in modo da non dovermi spostare troppo sul fondo.
Uno dei “segreti” del buon agguatista è la silenziosità, per la quale la fase più critica è senza dubbio quella dello spostamento sul fondo, in cui oltre alla ovvia acquaticità è richiesto un carico ed una disposizione della zavorra tali da consentire di sfiorare le asperità del fondo senza rumorosi urti che spaventerebbero il pesce. In profondità, a meno che ci si voglia mantenere positivi per ¾ della discesa, con il dispendio che ciò comporterebbe, l’assetto sarà comunque negativo al punto da rendere difficile spostarsi con la stessa silenziosità con cui ci si sposta in poca acqua, ragion per cui nel mio caso è stato utile “lavorare” sul metodo di trazione sul fondo per mezzo della mano libera. Fino a qualche anno fa ero solito trascinarmi facendo scorrere la mano libera lungo il fianco, ma poi ho cambiato sistema: oggi la mano scorre sotto il torace e la pancia. In questo modo ottengo due vantaggi: 1) durante la trazione, in una fase in cui sono “vulnerabile” perché più visibile, contrariamente a quanto avviene con la trazione laterale, il movimento del braccio si nota poco e niente perché parzialmente occultato sotto la mia sagoma; 2) mano e braccio formano un gradino che mi aiuta a tenermi staccato dal fondo quel tanto che basta per non urtarne le asperità.
Nell’agguato profondo è fondamentale sfruttare l’aiuto di tre alleati importantissimi sia dal punto di vista strategico che dell’economia di ossigeno: le soste, l’inerzia e la gravità. L’utilità strategica delle soste tra uno spostamento e l’altro, al riparo di un ostacolo da aggirare con circospezione, è ovvia perché…
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