Intervista a Renzo Mazzarri: “Le proverbiali 7 camicie” (4/5)
“Sembrano facili, ma poi …” La cernia, preda d’elezione del pescatore subacqueo. Una volta, almeno, era così. In gara si faceva molto affidamento sui serranidi e quasi tutti i più importanti successi agonistici di ogni pescatore erano spesso legati alla cattura di questo stupendo pesce. Questo episodio che vado a raccontarvi si riferisce alla cernia che, durante una competizione importante, mi fece sudare le famose “sette camicie”.
Era fine maggio del 1995 e si disputava in Campionato Europeo di Pesca in Apnea a Salina (Isole Eolie). La località era storica (Scarpati ci vinse il Mondiale) ma i tempi erano diversi. Il pesce che c’era una volta era diminuito, era molto più smaliziato, profondissimo e viveva in frane multistrato, spesso, a prova di sub. Oltretutto, quell’anno la prova avrebbe dovuto disputarsi una giornata a Vulcano e una a Lipari, ma l’ambiente ecologista in fermento e diverse pecche organizzative ci costrinsero a disputare le due giornate sulla piccola isola, posto decisamente limitato ed inadeguato per una simile competizione. Ci rendemmo conto da subito in preparazione che la situazione era rischiosa: i pochi pesci visti e segnati erano su zone che tutti conoscevano e la gara era un vero e proprio terno al lotto. Non dico che la società organizzatrice dovesse vincere a tutti i costi ma, sicuramente, si sarebbe potuto disputare un Europeo in casa con meno rischi. Oltretutto gli Spagnoli arrivarono sul posto ben coadiuvati: tutti con almeno due acquascooter a testa, una squadra ricca di atleti ed in più un March in grande forma. Anche l’acqua gelida e la stagione in ritardo non ci aiutarono.
Ma ormai era fatta e la gara era alle porte. Avevo segnato alcune cernie (e nemmeno di mole) profondissime tra i 35 e 44 metri ed una in 21 metri. Pochissimo pesce bianco. La partenza della prima giornata la faccio sulla cernia in “poca acqua” assistito dal mio secondo Marco Bardi. Nonostante la frana multistrato il pesce lo vedevo sempre abbastanza tranquillo a pochissimi metri dall’entrata e sul primo strato di sassi. Arrivato sul punto noto che il fondo si vede malapena ma, con le mire molto precise, al primo tuffo trovo il punto e lo pedagno. La corrente da sud è sostenuta. Altro tuffo di ricognizione nella tana. Illumino il punto dove trovavo sempre il serranide ma non lo vedo. La luce della lampada scorre la pietra e va a frugare nei posti più bui del meandro. Finalmente scorgo la schiena. Risalgo. Prendo l’Apache 90 e scendo. Illumino il pesce che stavolta si trova due strati di pietre più in basso. Vedo bene la schiena ed una piccola porzione di testa visto che occhi e muso sono coperti dalle pietre attorno. Miro al cranio del pesce e sparo. Il colpo è buono ma la cernia ha un sussulto e fa un piccolo scatto in avanti nascondendo il testone e alzando le dorsali. Tiro un po’ la sagola ma non si muove nulla.
Risalgo e mi faccio passare l’Sl 70 con lo spacca ossa. Sono nuovamente sulla tana e studio la situazione: il pesce può uscire solo da dove l’ho sparato, è vivo e piuttosto incastrato. Ci sarà da lavorare di grosso e di fino. Metto il pesce in trazione e gli sparo altri due colpi con l’arpione senza alette. Niente non riesco a fulminarlo. La testa è ben coperta. Decido di prendere il raffio lungo e cercare di smuovere il serranide facendolo arretrare di quel tanto che basta per piazzare il colpo risolutivo. Finché non è morto c’è ben poco da fare. Comincio a cercare un punto nel corpo del pesce in cui piantare il raffio per poterlo tirare. Provo nel ventre ma mi si strappa. Allora gli aggancio le spine dorsali e con uno strattone le tolgo da dove erano incastrate. Poi comincio a cercare un altro punto intorno alla frana dove , forse, posso tentare di lavorare. Sulla destra del masso trovo un pertugio da dove, a colpi di raffio e mani, riesco a togliere alcune pietre da sotto la sua pancia.
Il lavoro è estenuante: col raffio raggiungo la pietra, poi la aggancio facendola spostare o tirandola a me e poi la afferro e la tolgo. Un lavoro da vero minatore ma non c’è altra scelta. Lavorando in alternanza su i due buchi riesco a creare uno spazio sufficiente per riuscire a muovere il pesce. Sono nuovamente sull’ingresso principale. Riesco a vedere la linea branchiale del pesce ed afferrarla col raffio. Tiro con forza e vedo che la cernia arretra. Nello stesso tuffo afferro il fucile di riserva che avevo appoggiato nei pressi della tana e gli sparo vicino all’occhio. Il pesce ha un sussulto e poi non si muove più. Forse è morto, comunque ho piazzato un colpo decisamente risolutivo.
Risalgo stravolto. Il pesce pare privo di vita ma ci vorrà un bel po’ per tirarlo fuori da lì, ne sono certo. Sono passate tre ore di gara. Decido di metterlo in trazione sul fondo (nascondendolo in modo che nessuno lo possa trovare) e di spostarmi su una cernia lì vicino. Scendo sul fondo, gonfio il palloncino, faccio due giri di sagola intorno alla pietra, occulto tutto e salgo in barca. Nel tragitto che mi porta al segnale successivo mi riposo. Mi tocca fare un tuffo a 35 metri per vedere una grossa cernia che avevo marcato ma, appena arrivato sul fondo, il fumo che esce dalla tana mi fa subito capire che sono stato anticipato (saprò a fine gara che il Francese Gash l’ha catturata soffiandola di un niente al nostro Giovanni Zito).
Si ritorna sul pescione incastrato con tutta l’intenzione di finirci la gara. Estrarlo sarebbe importantissimo. Finire con un cappotto mi taglierebbe fuori dalla seconda frazione e sarebbe un grosso danno anche per il Team. Sono convinto che uscirà poco pesce. Nuova discesa verso il fondo e altro po’ di lavoro. Il pesce si muove pochi centimetri alla volta ma ogni volta è sempre più facile raggiungerlo e lavorarlo col raffio. La cernia ha un’asta di arbalete nella testa e una di Sl 70 sul groppone. All’ennesimo tuffo riesco ad agganciare la bocca col gancio: faccio una trazione fortissima per tirarla ma le labbra si strappano. Che sfortuna! Ennesima discesa in una corrente che è in aumento. Stavolta gli raffio le orbite, ruoto il pesce e lo giro con la testa da me. Finalmente ce l’ho fatta. Il più è fatto… penso. Ma non ho fatto i conti con la lunga tahitiana che si va ad incastrare tra le rocce dell’antro. Manca poco alla fine e sono veramente cotto. Mi faccio passare il raffio un po’ più corto e sono pronto per un altro po’ di lavoro. Aggancio la tahitiana incastrata e comincio a tirare puntellandomi con le pinne sulla roccia. Una, due, tre, quattro volte finché non la spezzo all’altezza della prima tacca.
Ormai il pesce è mio. Sento nuova energia. Pochi atti respiratori per recuperare e giù deciso ad estrarlo. Pianto il raffio sotto il muso del pesce (tra fine branchie ed inizio labbro) e tiro … tiro … sposto ancora un po’ e tiro. Esce. Ha ancora un piccolo sussulto di resa. Arrivato in superficie tiro un urlo spacca timpani e picchio i pugni sull’acqua. Che fatica. Manca mezz’ora alla fine. Sarà l’unico pesce della mia giornata e fermerà la bilancia ad oltre 13 chili. Terminerò sesto di frazione (come previsto il pesce è stato scarso ed una cernia avrebbe potuto fare la differenza. Solo March ha fatto una gran pescata) e, successivamente con una seconda manche incolore, sesto finale di un Europeo dominato alla grande dallo Spagnolo Alberto March in entrambe le giornate. Però rimarrà il ricordo della cernia più difficile che abbia mai preso in una gara.
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Category: Interviste, Pesca in Apnea