E’ successo in gara: Aldo Calcagno e la sua cernia piu’ difficile!
Apnea Magazine è lieta di presentare “E’ successo in gara”, una nuova serie di articoli dedicati all’agonismo attraverso i quali la nostra redazione darà voce ai grandi campioni del nostro sport per condividere con tutti voi gli episodi più emozionanti e memorabili della loro carriera agonistica. Apre il pluricampione italiano Aldo Calcagno, atleta di spicco del Team Effesub, la cui testimonianza è stata raccolta da Simone Belloni.
Aldo estrae la cernia dalla tana – Foto: A. Balbi
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La ricordo bene quella cernia. Non solo perché mi fece penare per oltre 3 ore, ma anche perché fu l’ultima che potei catturare in competizione. Infatti, i regolamenti gara dell’anno successivo hanno escluso questo magnifico pesce al novero delle prede valide.
Era il Campionato Assoluto del 2002, disputato a S. Antioco in Sardegna, e precisamente la prima giornata. Ero partito su alcuni segnali fuori l’isola del Toro in 25 metri d’acqua, dove durante la preparazione avevo segnato una bella zona con tre cernie piuttosto facili.
Arrivai sulla prima mira e scesi fiducioso in acqua, ma mi trovai di fronte ad un imprevisto che finì per condizionare un po’ tutti gli atleti in questa prima manche: un fiume di corrente impediva ogni azione di pesca. Per rendersi conto dell’intensità della corrente, si consideri che al primo tuffo mi ritrovai a passare sopra alla cernia fuori tana senza avere alcuna possibilità di poter fermarmi, correggere traiettoria o tanto meno sparare: allucinante.
Al secondo tuffo decisi di pedagnare il posto sganciando la cintura collegata al pallone segnasub. Per farla breve, e per farvi capire che tipo di situazione c’era, non sono più riuscito a ritrovare né la cintura, né la boa. Rimasi in zona per circa un’ora e mezza ma senza combinare nulla. A quel punto decisi di portarmi presso l’isola della Vacca, dove avevo un bellissimo segnale in 28 metri d’acqua. Si trattava di un ciglio molto frastagliato che ospitava saraghi e corvine oltre ad una grossa cernia bianca.
Date le condizioni rilevate in precedenza non ero molto fiducioso, ma comunque ero in gara, ero carico e sapevo che avrei dovuto giocarmi tutte le carte con la massima convinzione. Arrivai sul posto e rimasi letteralmente di stucco nel trovare una situazione diametralmente opposta, ossia mare piatto ed assenza totale di corrente. Mi diressi subito sul segnale più bello, il famoso ciglio, ma dopo qualche tuffo fui costretto a constatare con sgomento che non vi era più neanche un pesce.
La cernia ormai fuori tana viene recuperata con calma dalla superficie – Foto: A. Balbi
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Mi spostai più a levante, ad un centinaio di metri di distanza, in una zona in cui avevo trovato un punto particolare con una bella cernia. Questo segnale lo avevo individuato quasi per caso. Sorvolavo una zona di piccole roccette insignificanti sparse su una distesa di sabbia; la zona di roccia terminava su un piattone roccioso piuttosto lungo, basso ed all’apparenza privo di tane. Nel corso di una delle tante planate m’imbattei in una cernia che se ne stava in candela in un punto al limite di questa zona ‘morta’. Durante il mio avvicinamento, il serranide, con mia grande sorpresa, si girò con calma su se stesso e s’intanò in un’ unghia di roccia. Al tuffo successivo ispezionai il punto e notai una crepa di circa 20 cm d’altezza col pavimento a sabbia pesante (di quella che non sporca) e la cernia di muso, pittosto facile da catturare. Arrivato sul punto presi il cyrano 85, comiciai a ventilarmi con calma e, visto che ero solo, cercai di iniziare a studiare una strategia. Riuscire a scoccare il colpo in caduta sarebbe il massimo, ma sapevo già che il pesce in questione difficilmente si sarebbe prestato ad una cattura scontata. “Se si intana in quella crepa”, pensai, “sarà molto più semplice”.
Inizio la discesa. Già dopo poche pinneggiate sono neutro e proseguo a foglia morta. Ad una quindicina di metri comincio ad intravedere il fondo, che man mano si fa sempre più nitido. La vedo. E’ sempre nel solito punto in candela e quando giungo ad una decina di metri circa da lei, si gira e s’infila nello spacco come al solito. Con una piccola inclinazione delle caviglie rallento la mia discesa e mi appresto ad ispezionare la tana, pronto a scoccare un tiro frontale. Mi affaccio al buco con lampada e fucile già in linea, ma mi accorgo che la cernia si trova in una posizione anomala. In pratica, nasconde la testa dietro uno sperone di roccia posto tra il centro della tana e la sua fine. Non lo avevo mai notato quel riparo, e questo scombussola i miei piani. Vedendo solo la schiena ed una porzione di coda del pesce e in assenza di altre fessure che mi permettano di colpire il serranide in testa, devo necessariamente optare per un tiro a centro schiena, un punto di buona tenuta. Poi, vista la conformazione lineare della tana, potrò lavorala e portarla in superficie senza grosse difficoltà.
Gli ultimi attimi concitati della cattura – Foto: A. Balbi
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Il tiro centra il pesce che rimane quasi fermo, ed io risalgo facendo filare il mulinello e mettendola in trazione. Chiedo al mio secondo un cyrano 70 e mi appresto alla seconda discesa con l’intenzione di valutare bene il tiro ed eventualmente portarne un secondo. Ancora un tuffo sul filo dei 28 metri ed ancora un’ispezione accurata. La cernia muove la coda, ma la sabbia pesante non sporca. Vedo chiaramente le spine dorsali piantate sul tetto della tana e l’asta saldamente conficcata nel corpo del pescione. Piazzo il secondo colpo appena più avanti rispetto al primo, ma più o meno alla stessa altezza. Mollo il fucile e risalgo. In superficie chiedo il raffio e mi appresto a lavorare il pesce.
Ho intenzione di agganciarlo per spostarlo un po’ indietro, quel poco che basta per vederne la testa e portare il colpo risolutore che ne faciliterà l’estrazione. Un’occhiata all’orologio per verificare i miei tempi di permanenza sul fondo. Le mie apnee variano tra il minuto e venti ed il minuto e trentacinque. Il lavoro col raffio a fondo mi costringe a ridurre i tempi, ma in quei pochi secondi devo essere efficace. Arrivato sul fondo allungo il gancio verso la schiena della cernia e cerco di smuoverla, ma mi accorgo subito che lavoro meglio se mollo la boetta di trazione (tanto comunque da lì non si può muovere). Risalgo, la mollo, mi ventilo e ridiscendo sulla tana. Afferro il pesce con le aste e cerco di spostarlo indietro. Si muove un poco, ma le spine dorsali sono ben conficcate alla roccia, opponendo resistenza, così prima di salire le aggancio e con un colpo secco ne spezzo qualcuna.
In superficie sono tranquillo, il mio allenamento mi permette un recupero veloce e dopo poco sono pronto per l’ennesima discesa. Ora ho la situazione più chiara. Sul fondo posso lavorare per una ventina di secondi. Riparto e dopo poco sono di nuovo affacciato al buco. Aggancio il pesce afferro le aste e comincio a muoverlo, a scuoterlo e lui arretra di pochi centimetri ancora. Prima di risalire illumino la testa e comincio ad intravedere dei punti interessanti prossimi alla zona branchiale. In superficie comunico al mio secondo che la situazione sta migliorando e che da lì a poco avremmo messo il pescione a paiolo.
Altra sommozzata, sempre col raffio. Pianto il gancio nella schiena della cernia, afferro le aste e comincio a smuoverla avanti ed indietro. Vedo che muove la coda a tratti ma ora comincio a vedere anche la parte superiore del cranio. Ormai per esperienza (pur non vedendo perfettamente tutto) intuisco che è una zona vitale vicino all’occhio, quindi, una volta risalito, passo il raffio e chiedo il cyrano 70 con l’arpione senza alette. Ventilazione rilassata e giù nel blu profondo di questo splendido mare. Non ho fretta ma so che il tempo passa: più passa, più la mia prima frazione potrebbe essere tremendamente condizionata da questa cattura. Illumino la tana e la luce va a materializzare il punto che devo colpire, vicino alla testa. Sparo e tiro l’asta verso me. La cernia ha un sussulto ed inizia a sbattere, non è morta. Risalgo. Qualche imprecazione e di nuovo chiedo il raffio. Di nuovo sotto e di nuovo illumino la tana. Vedo che il serrande è schiacciato alla parete, fermo e con la testa nascosta, ma fortunatamente questo suo arretramento ne ha scoperto una parte, adesso riesco a intravedere una piccola porzione d’occhio. Lascio il raffio sopra la tana e risalgo per riprendere lo “spaccaossa”, l’arpione senza alette che mi consentirà di porre fine alle sofferenze del pesce ed estrarlo con maggiore facilità.
La preda è vinta… ma la gara è compromessa – Foto: A. Balbi
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Seguono alcuni tuffi con altrettanti tiri, finché l’ultimo centra il pesce in un punto vitale, fulminandolo. Manca un’ora circa alla fine della prima frazione quando col raffio aggancio la cernia nel labbro superiore. Ruoto il polso di 180° e la tiro verso di me, ma la testa s’incastra tra una roccia e il tetto dell’anfratto, così sono costretto a mollare tutto e risalire. Il mio barcaiolo è nervosissimo, mi dice che c’è poco tempo ma io sono convinto che in 3 o 4 tuffi il pesce dovrebbe uscire. Niente di più sbagliato, anzi, ad un certo punto, durante una trazione, il gancio del raffio strappa il labbro e si sgancia. Il pessimismo inizia ad invadermi. Mi sento bene, ma tutti questi tuffi oltre i 25 metri sono davvero faticosi. Lavorare una cernia arroccata è davvero impegnativo (mi ricordo che un giorno per conto mio ne lavorai una per 6 ore sul filo dei 30m prima di averne ragione) ed i pensieri t’assalgono. Devi assolutamente restare concentrato e rilassarti, senza lasciarti mai prendere dalla foga di riemergere con il pesce, un errore che può costare molto caro.
Sono ancora sul fondo e valuto la situazione. Aggancio il labbro inferiore e tiro, ma non succede nulla, tutti i miei tentativi sono vani. Decido di provare a farla uscire in senso inverso, facendola arretrare nuovamente, girare dietro la pietra ed estrarla di coda. Mi preparo bene, i miei recuperi sono buoni e le gambe girano che è una meraviglia. La grinta sale e l’adrenalina viene in soccorso. Mentre scendo sto già pensando a cosa fare e questo è fondamentale per certe azioni di pesca. Provo ad arretrare il pesce ma è bloccato. Non si muove di un millimetro. La riaggancio per il labbro inferiore e si rompe pure quello. Torno in superficie e dico al mio secondo che la vedo durissima. Lui mi sprona. Ormai la cernia può solo passare frontale e per giunta da questo spacco veramente piccolo (una ventina di centimetri d’altezza). Ora dovrò lavorarla di forza (una cosa da non fare mai) non c’è altra soluzione. Prendo un fucile corto, scendo e le sparo tra gli occhi. Risalgo e la metto in trazione col pallone ben al di sotto della superficie, nella speranza che mi aiuti nello sforzo. Dovrò ponderare molto bene tutta la mia azione di pesca, ma l’esperienza e l’allenamento costante mi permettono una grande tranquillità. Arrivo all’imboccatura della tana, aggancio il pesce e do un paio di strattoni aiutandomi con le gambe appoggiate alla roccia [altra operazione rischiosa da non fare mai]. Il pesce scivola in avanti di pochi centimetri. Sono di nuovo a galla e non alzo nemmeno la testa per guardare il mio secondo. Mi ventilo immediatamente. Passano i secondi’ un minuto, un minuto e trenta e di nuovo il mare si chiude sopra di me’
Sono di nuovo di fronte alla cernia. Afferro il gancio con due mani, mi puntello e tiro… il pesce inizia a cedere. Ancora un tuffo, ma prima devo portare la boa ancora sott’acqua. Eccomi sul fondo. Prendo asta e raffio e tiro. Si spacca la branchia ed il gancio mi rimane in mano. Ormai non vedo l’ora di portarla in barca. Chiedo al mio secondo quanto tempo mi rimane e lui mi dice circa mezz’ora. Ancora giù. Non so più dove raffiare la cernia ed allora gli metto il ferro nelle orbite. Tiro e, come in una esplosione di polvere e rumori sordi mi trovo a pinneggiare verso la superficie con il pesce. Appena riemerso vedo il mio secondo saltare dalla gioia, ma io, come in trance, gli passo veloce il pescione (14 Kg circa alla bilancia) recupero tutto e gli dico di andare sulla mira successiva’ Mancavano venti minuti alla fine della giornata.
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