Corsi di Pescasub e Sicurezza: Riflessioni di un Istruttore
Alla figura dell’allievo che all’istruttore chiede “semplicemente” cosa fare per poter praticare la pesca subacquea nel modo più efficace e sicuro possibile, da alcuni anni se n’è affiancata un’altra più complessa, che considero il naturale prodotto di un’epoca in cui l’informazione è apparentemente alla portata di tutti: potremmo definirlo “l’allievo del terzo millennio“.
Egli scende in acqua con attrezzatura di primissimo livello, è alla costante ricerca dell’arma più potente e precisa al tempo stesso (al momento è infatuato perso dei roller), non disdegna la videocamera collegata al fucile, non entra mai in acqua senza il suo computer da apnea al polso, ma vede e prende pochissimi pesci -solitamente cefali e qualche saraghetto- ed è convintissimo di sapere perché: gli servono i posti giusti e più apnea.
Posti ed apnea sono quindi ciò che questi allievi chiedono, più o meno apertamente, all’ istruttore, il quale, in base alla propria coscienza ed onestà, può rispondere in due differenti modi, dei due l’uno: o illudendoli di poter ottenere ciò che cercano, o mostrando loro la “dura e cruda” realtà, ossia una cosa ben lontana da ciò che percepiscono attraverso quello che attualmente si direbbe il principale mezzo di divulgazione della disciplina: internet.
La tipologia di allievo di cui sopra è infatti andata a scuola di pesca subacquea sul web, i suoi maestri sono i più cliccati pescatori di youtube, la sua palestra i forum ed i social network: la rete, così vissuta, è senza dubbio potenzialmente pericolosa per l’incolumità di un neofita ed al contempo rappresenta un ostacolo per l’istruttore che non vuole illudere nessuno e cerca di “formare” pescatori subacquei. Quando infatti la scintilla generatrice della passione scaturisce da un’idea distorta della realtà, esiste il rischio concreto che anche i pericoli reali ed annessi alla disciplina vengano percepiti in modo distorto e magari per questo sottovalutati.
Perchè i computer da apnea stanno spopolando? E’ una moda? Tutti a rischio Taravana? O forse quell’oggetto sta ad indicare un’idea ben precisa della pesca subacquea, quella più pericolosa, incentrata sull’emulazione di chi il taravana lo rischia sul serio, o sulla ricerca della performance apneistica e dell’esplorazione dei propri limiti? Chi lo sa… ma quando quegli orologi vengono esibiti in foto con un primo piano di tempi e profondità raggiunte, come spesso fanno alcuni pescatori noti nel web per i loro video e performances piscatorio-apneistiche di alto livello, c’è poco spazio per i dubbi: l’emulazione, coi pericoli ad essa annessi, sta alla base di certi atteggiamenti.
Cosa si può fare per risolvere il problema? Censurare le performance di forti atleti e pescatori? O addirittura incolpare loro per le gesta di chi prova ad emularli? A mio giudizio assolutamente no, così come non sarebbe giusto incolpare o censurare gli agonisti per certe loro gesta di cui si parla nelle riviste o in rete: l’esibizione, in questi casi, penso che nasca da una naturale necessità e ricerca di riconoscimento del proprio valore in un contesto, quello subacqueo, normalmente privo di pubblico ed applausi. Per permettersi quelle cose, gli atleti hanno fatto enormi sacrifici, fatti di rinunce e tanti anni di allenamenti dentro e fuori dal mare, quindi ritengo che anziché censurare o incolpare, li si dovrebbe piuttosto applaudire.
Nonostante le informazioni reperibili su internet siano aperte a tutti, non tutti sono capaci di riconoscerle e decifrarle perché alla verità ed al “sapere” si mischiano la disinformazione, le menzogne e l’ignoranza, messi alla mercé di chiunque e che, senza il filtro di adeguati mezzi culturali, rischiano di confondersi e confondere, sicché, ad esempio, non tutti si rendono conto di quanto allenamento e quante difficoltà si celino dietro azioni di pesca subacquea solo apparentemente semplici ed alla portata di molti, e da qui la pericolosissima illusione di poterle imitare senza la necessaria, ma non sempre scontata, preparazione.
Certe performance eclatanti, secondo me, andrebbero piuttosto filtrate da appositi organi deputati alla promozione ed all’insegnamento della pesca in apnea, ma il problema è che io non ne vedo: ma quali sarebbero? Gli istruttori di pesca subacquea ed una federazione in cui, quando non è ostile, non si riconosce la stragrande maggioranza degli appassionati?
La natura del filtro, nonché la sua necessità, deve essere stabilita soltanto da chi riconosce di non disporre di adeguata preparazione per interpretare nel modo corretto certi messaggi che provengono dalla rete, dai negozianti che promuovono ciò che vendono e dai media in genere. Bisogna tenere conto del fatto che un consiglio non richiesto può fare più danni del silenzio, in quanto indispone il potenziale interlocutore rendendolo refrattario al feedback. Per tale ragione ritengo che sia l’allievo a dover scegliere il proprio maestro e non il contrario, ma… affinché ciò avvenga è necessario che il primo abbia l’umiltà necessaria per rendersi conto di aver bisogno di una guida: lapalissiano.
Osservando gli allievi durante le lezioni, mi capita di cogliere qualche sguardo assai deluso nel momento in cui, ad esempio, sostengo che, a mio giudizio, la durata dell’apnea del pescatore, a differenza di quella dell’apneista puro, non è migliorabile in modo apprezzabile con un corso di uno o tre mesi, o che un “cannone” con doppio elastico o roller è più di intralcio che di utilità nella maggior parte delle comuni situazioni di pesca, o che il mio fucile preferito, in inverno, è un piccolo 60 corredato da una semplicissima coppia di elastici, eccetera: amen, in questi casi ritengo sia più costruttivo deludere che illudere, perché la delusione è figlia di preconcetti potenzialmente pericolosi (es. più apnea = maggiore profondità = più pesce) e che, per questo, un istruttore ha il dovere di provare a rimuovere.
E da cosa deriva il preconcetto se non dalla presunzione di sapere? E non è forse vero che la presunzione è l’antitesi dell’umiltà? Senza umiltà quale feedback allievo-maestro può nascere? Tutte domande, quelle appena poste, assolutamente pleonastiche ed a cui quindi evito di fornire risposta. La preparazione teorica “ante corso” di molti allievi, oggi, è certamente di gran lunga superiore rispetto a quella di un tempo (merito di internet), ma il fatto che i loro risultati in mare siano pressochè identici a quelli degli allievi meno informati mi fa riflettere sulla effettiva utilità delle lezioni teoriche: forse sarebbe il caso di ridurne il numero e di incrementare invece le uscite in mare…
Affinché si riesca a fare ciò che si pensa, è necessario che mente e corpo siano “sulla stessa frequenza d’onda”, ma perché ciò avvenga è necessaria una cosa: tanta pratica… ed è per questo che più pratici, secondo me, dovrebbero essere anche i corsi specifici. Come dicevo in apertura, molti sono convintissimi di aver bisogno unicamente di posti migliori e più apnea per prendere più pesce, ma ciò si verifica solo perché non hanno una corretta percezione di se stessi immersi in acqua alla ricerca di pesce, ossia perché mente e corpo non si trovano sulla stessa lunghezza d’onda. Di grande valenza didattica, a questo proposito, più e prima ancora delle correzioni fatte direttamente dall’istruttore, è la ripresa video delle azioni di pesca simulate dagli allievi durante le uscite in mare che di solito, fino ad oggi, si svolgono a fine corso. Vedersi in video, specie per chi comincia, permette di accorgersi in prima persona di quanto lontana dalla propria percezione sia l’azione subacquea che si compie: un primo passo verso la comprensione che forse, ben prima che nei posti e nella durata dell’apnea, le ragioni dei propri insuccessi subacquei siano da ricercare, ad esempio, nella mancanza di acquaticità e/o della capacità di eseguire correttamente le principali tecniche di pesca.
Oltre che istruttore di pesca subacquea sono anche un allenatore di apnea FIPSAS che da un paio d’anni a questa parte cerca di introdurre questa disciplina nelle piscine catanesi e sogna una figura di pescatore subacqueo ben più evoluta di quella “fai da te” che fino ad oggi risulta prevalente: quello che si allena e che rispetta il proprio corpo, nel senso che se fisicamente in mare può dare 100, si limita a dare 70 e non 110, come invece accade oggi. Posto che l’allenamento, in tanti altri sport, non è mai limitato alla sola pratica degli stessi (non vedo perchè la pesca subacquea dovrebbe costituire un’eccezione) e ritenendo che la fatica sia una della cause, specie in chi non frequenta il mare spessissimo, della riduzione della lucidità mentale, ossia di quella cosa da cui dipende l’incolumità stessa del pescatore apneista, ho pensato che un allenamento finalizzato ad allontanare la fatica e rendere una pescata piacevole per parecchie ore consecutive, potesse essere molto utile a tutti i pescatori subacquei: la strada è tutta in salita.
Alla necessità, comune a molti, di mantenere quantomeno la forma fisica acquisita alla fine dell’estate – che regolarmente si perde in inverno a causa degli impegni lavorativi che obbligano 9 pescatori su 10 a ridurre drasticamente le uscite in mare – nonché a quella, ovvia, degli agonisti che intendono presentarsi alle gare al top della condizione, si contrappone una scarsa propensione alla fatica ed al sacrificio che ho scoperto essere assai diffusa nell’ambiente, sicché quella meravigliosa opportunità rappresentata da allenamenti finalmente specifici ed a misura del singolo, attualmente si traduce in un’attività non adatta a tutti (più a livello psichico che fisico).
La ricerca della scorciatoia più breve per raggiungere mete “per pochi” e che normalmente richiedono percorsi lunghi, tortuosi e lastricati di sacrifici, sembra allettare parecchi pescatori subacquei, ma a mio giudizio essi inseguono un miraggio, un’illusione che evidentemente, tramite i media, viene alimentata da alcuni messaggi che considero fuorvianti. Asserendo, ad esempio, che l’apnea sia “unica”, cioè che ci sia un solo modo di praticarla, ed assegnando al contempo qualifiche sulla base di metri e secondi, si possono indurre visioni più “quantitative” che “qualitative” dell’arte del trattenere il respiro, alimentando così le illusioni di quei pescatori subacquei che cercano proprio la mera quantità, cioè più apnea. Tuttavia un’apnea che per gran parte è funzione dell’introspezione e di una ciclicità di azioni, generalmente mal si concilia con le esigenze di un pescatore impegnato a guardare contemporaneamente dentro e fuori da se stesso, e che compie azioni rese acicliche dall’imprevedibilità che caratterizza ogni fase di una battuta di pesca subacquea. Accade dunque che solo una ristretta elìte di individui, in virtù di una grande esperienza, allenamento, sensibilità e conoscenza di sé – tutte cose che si sviluppano ed affinano con un percorso fatto soprattutto di anni di pratica assidua del mare e dell’immersione in apnea- possa realizzare realmente “l’unicità dell’apnea” nella propria pratica venatoria, ma per chi invece si affida unicamente ad un corso di pochi mesi prescindendo dal suddetto percorso “obbligato” , quella meta non è raggiungibile : questo è quello che fino ad oggi mi è capitato di constatare.
L’attività di allenatore mi ha anche permesso di notare un’altra “chicca”: non è affatto scontato che un bravo pescatore subacqueo o apneista puro, sappia nuotare senza attrezzatura! La conoscenza dell’abc del nuoto in stile libero (crawl), ad esempio, è basilare nel periodo generale di allenamento (che in una programmazione di 8-9 mesi, solitamente, sarebbe quello relativo ai primi 4), ma i fatti mi hanno dimostrato che non tutti coloro che conoscono le tecniche di apnea (altro requisito necessario ed ovvio per potersi allenare adeguatamente), possono seguire un programma di allenamento specifico (o almeno non per come lo concepisco io) perché dovrebbero prima imparare a nuotare in modo adeguato. A mio giudizio è inconcepibile e pericoloso per l’incolumità del pescatore apneista, una eccessiva dipendenza dall’attrezzatura per muoversi bene in acqua, ma incredibilmente, di fatto, spesso è questo ciò che avviene… e siccome il problema è tecnico, andrebbe affrontato nei corsi tecnici (non certo negli allenamenti), ossia in quelli di pesca in apnea, che però al momento hanno standard di durata che ritengo insufficienti per una formazione completa.
Gli attuali corsi di pesca hanno infatti valenza più promozionale che formativa, cioè dire servono ad “indirizzare” il neofita verso un modo di intendere la pesca subacquea, per cui ritengo inappropriata la definizione di “brevetto” in riferimento a quel pezzetto di plastica che viene rilasciato alla fine dei corsi suddetti. Normalmente, infatti, un brevetto per sub attesta l’apprendimento di un minimo di conoscenze ed abilità da impiegare in ambito subacqueo, ma senza un esame finale quale apprendimento si dovrebbe certificare? Nessuno, e per questo secondo me l’attuale brevetto andrebbe chiamato semplicemente “attestato di frequenza“. Con un esame obbligatorio, d’altra parte, il numero dei brevettati assicuro che si ridurrebbe drasticamente (per le bocciature) e forse, chissà, magari è proprio per questo che la federazione non li ha introdotti, ma considerato che il 90% dei brevettati non rinnova l’affiliazione alla federazione nell’anno successivo a quello del corso, cosa si sta concludendo se non alimentare pericolosamente l’ego e la presunzione di chi, sulla base di un pezzetto di plastica, spesso vanta qualità e capacità di cui invece non dispone? E se quella certificazione, per com’è concepita, dovesse incoraggiare azioni subacquee che per essere condotte in sicurezza richiedono qualità che in realtà non si possiedono, di chi sarebbero in parte le responsabilità? Dell’istruttore o di chi questi corsi li ha pensati così per come si presentano?
Queste sono domande che istruttori e vertici federali devono porsi, perchè non bisogna dimenticare che l’attività che si sta promuovendo non è una tranquilla pescatina con la canna da riva o dalla barca, ma una disciplina che comporta rischi mortali di cui secondo me non tutti i praticanti sono pienamente consapevoli, a prescindere dal livello di pratica. Essere pienamente consapevoli di quei rischi, mi tocca ammetterlo, significa riuscire a controllare, grazie al coraggio ed all’amore per questa disciplina, la paura, ma non a cancellarla totalmente dal proprio cuore, perché essa sta alla base del buon senso, ossia di quella condizione necessaria (anche se purtroppo non sempre sufficiente) per poter praticare la pesca subacquea entro limita accettabili di sicurezza. A mio giudizio chi non teme niente, delle due l’una: o non ama niente, o è un incosciente.
Ci sono discipline che consentono di sbagliare, toccare con mano i rischi annessi e capire se si agiva veramente con consapevolezza: capita dunque che appassionati di calcetto, arti marziali, etc. abbandonino quelle attività al primo infortunio, perchè serviva questo per acquisire consapevolezza e capire che in realtà non si era disposti ad affrontare rischi simili; altri, i consapevoli, nonostante innumerevoli infortuni, proseguono imperturbabili nella loro pratica. Il mare purtroppo non consente di sbagliare e poi diventare consapevoli, ma esige un’immediata presa di coscienza in merito alle conseguenze che può comportare un errore: lo sanno bene tutti coloro che in mare hanno perso un amico, un fratello, un genitore o un figlio! La consapevolezza in mare, o meglio la responsabilità delle azioni che si compiono, segna anche il limite delle responsabilità morali di un istruttore, il quale indica una via, un modus da lui ritento migliore di tanti altri, ma non legge nel pensiero degli allievi, non può imporre (semmai suggerisce) loro le giuste finalità con cui si dovrebbe seguire un corso o ci si dovrebbe allenare, e non può guidarli come burattini quando essi si trovano soli in mare, quindi se vero è che cattivi maestri fanno cattivi allievi, non sempre è vero il contrario.
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