Affondamento della nave Nicole
Il giorno 26 di gennaio, a circa due miglia dal Porto di Numana, lungo la Riviera del Conero, è affondata su un fondale sabbioso, di circa 12 – 13 metri di profondità, la nave “NICOLE”.
La nave “NICOLE” è lunga 138 metri, batteva bandiera del Belize ed aveva equipaggio ucraino, essendo costruita per navigazione fluviale o lacustre ha fondo piatto e sponde basse. La nave proveniva da IZMIR in Turchia ed era destinata a Porto Levante (Marghera), il suo carico era costituito da 2.800 tonnellate di FELDSPATO che è un materiale lapideo di cava utilizzato come materia prima nelle industrie della vetreria e della ceramica.
Il 26 gennaio, mentre navigava al largo della costa della Riviera del Conero, la nave si trovava in difficoltà a causa del mare mosso e del vento da nord-est, l’equipaggio rifiutava l’aiuto della Guardia Costiera e, nella speranza di trovare un ridosso, si avvicinava a riva a sud del Monte Conero dove, al contrario, una serie di onde superavano le murate inondando le stive e la nave affondava per il peso, restando perfettamente diritta ed adagiandosi sul fondale sabbioso di 12 – 13 metri.
L’allarme scattava immediato e la Guardia Costiera e l’ARPAM (Agenzia Regionale per l’Ambiente delle Marche) intervenivano tempestivamente mettendo sotto controllo il relitto e le acque circostanti, il giorno successivo, mentre la nave per interventi di disinquinamento “Città di Ravenna”, recuperava il gasolio dai serbatoi del relitto, la motonave “Sibilla” dell’ARPAM procedeva ad effettuare prelievi dell’acqua per rilevare presenze di inquinanti chimici, oli ed idrocarburi. Per una più completa visione venivano effettuati anche dei sondaggi sul fondale circostante il relitto e venivano prelevati dei reperti del carico per controllare che il feldspato non contenesse additivi ed inquinanti. I dati, confrontati con quelli dei prelievi effettuati nella stessa zona nel 2002, erano tutti nella norma.
Quindi, quello che poteva essere un evento disastroso, se la nave avesse trasportato idrocarburi o prodotti chimici è stato fortunatamente evitato.
Ora si pone il problema di come intervenire sul relitto, si è aperto un dibattito che vede due ipotesi diverse, il recupero del relitto ovvero la conservazione dello stesso per utilizzarlo come ripopolamento e meta del turismo subacqueo.
La prima ipotesi comporterebbe un costo di varie decine di milioni di euro al fine di azzerare completamente un qualsiasi effetto anche futuro sull’ambiente della zona.
La seconda ipotesi, che è caldeggiata dalle associazioni subacquee, dai divings e dagli operatori turistici della riviera prevede, con un costo molto inferiore a quello del recupero, la messa in sicurezza del relitto recuperando ogni possibile fattore inquinante presente all’interno (oli lubrificanti, amianto ecc.).
Un relitto di tali dimensioni, a profondità così accessibili, da una parte costituirebbe un’oasi di ripopolamento per la fauna ittica e dall’altra sarebbe un polo di attrazione straordinario per il turismo subacqueo sia per apneisti che per sommozzatori, con la possibilità di farne un percorso culturale e divulgativo ed installarvi un monitoraggio continuo delle biocenosi marine dell’Adriatico.
Gli operatori che sostengono questa ipotesi sottolineano come la tragedia del 29 settembre 1965, che causò l’affondamento della piattaforma Paguro al largo di Ravenna, sia divenuta uno straordinario volano economico, con migliaia di visitatori ogni anno che si immergono per visitare uno straordinario esempio di colonizzazione, che è una eccezione rispetto alle distese sabbiose dell’alto Adriatico.
E’ in corso, a sostegno di questa ipotesi, anche una petizione che sta raccogliendo migliaia di adesioni.
Chi volesse avere ulteriori informazioni, o dare sostegno alla iniziativa, può contattare il sito www.centrosubmonteconero.com, che funge da centro di raccolta delle firme della petizione.
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