Intervista a Massimo Scarpati: l’Uomo che ha Cambiato la Pesca in Apnea
Intervistare Massimo Scarpati è rischioso. Un giornalista si trova sempre impreparato ma se ne accorge solo alla fine. Già perché, quando credi di avergli chiesto tutto, a fine intervista ti accorgi che avresti potuto parlargli ancora per dieci ore e lui avrebbe risposto anche a tutto il resto. Tutto quello che ti sei dimenticato di chiedergli. Fatta premessa ci troviamo di fronte, probabilmente, al più grande pescatore subacqueo che sia apparso nei continenti marini. Nella breve (brevissima, direi) carriera agonistica ha vinto tutto e ovunque. Precursore di tutto, dagli allenamenti, alle attrezzature, passando per l’alimentazione e le tecniche di pesca, Scarpati è il classico piccolo, grande uomo in mare in terra. Modesto, introverso, ma anche disponibile e affabile. Questa serie di aggettivi dimostrano quanto ci sia di affascinante in questa persona. Fortuna è Italiano, Napoletano, e fortuna ho avuto la possibilità di contattarlo e fagli un po’ di domande (ma ripeto sempre poche a mio avviso) come fossi nel salotto di casa sua. Grazie!
Ciao Massimo: solo 9 anni di agonismo ed hai vinto tutto? Ma erano scarsi gli altri o troppo forte tu?
Innanzitutto ti ringrazio perché sei l’unico che si ricorda che il mio palmares è frutto di “soli” nove anni di competizioni. Non lo aveva mai ricordato nessuno. Ma è proprio così.
E’ anche un mio piccolo rimpianto. Per quanto concerne la seconda domanda posso dirti che ai miei tempi gareggiavo contro dei veri e propri campioni. Atleti seri, preparati, competitivi. Per fare qualche nome in campo nazionale cito Gasparri, Santoro, Toschi, Treleani, e molti altri ed in campo internazionale, Noguera, Amengual, Gomis, Nanai, Esclapez eccetera. Insomma tutta gente capace di vincere ovunque.
Ora, chiaramente, non sono io che devo esprimere pareri sulle mie capacità rispetto a quelle degli altri, ma posso assicurarti che in gara ho sempre dato il massimo. Ho sempre cercato di essere competitivo, puntiglioso, preparato.
Ma come sempre oltre ad un bagaglio tecnico importante ed un possibile talento, ci vuole anche la solita dose di fortuna. Per quanto mi riguarda penso di essere in credito con la Dea Bendata ma rimane il fatto che comunque ho conquistato traguardi importanti. Insomma ho poco da rimproverarmi.
Sull’agonismo torneremo dopo, ora voglio entrare nel “tecnico”, nel manuale. Molti tue idee alla fine si sono rivelate veri e propri progetti di grande importanza. Hai messo mano su fucili, pinne e maschere facendo fare un salto di qualità alle attrezzature che ancor oggi sono validissime pur cambiando i tempi. Che mi dici?
Fino a circa la fine degli anni ’60 i fucili erano ad aria compressa con manico centrale (canna davanti e dietro serbatoio). Io ho sempre gareggiato per la Mares e mi ricordo che usavo i Vicojet, i Titan e così via. Armi potenti e letali ma di difficile manovrabilità. Serviva qualcosa di più comodo specie per lavorare meglio in posti angusti e con linee di mira più efficaci.
Così un giorno proposi a Ludovico Mares di studiare la forma degli arbaletes cercando di ricavarne un fucile ad aria. A quei tempi mettere su un progetto e terminarlo costava soldi e fatica perché non c’erano certo né le disponibilità di materiale, né i macchinari odierni. Ma con volontà e pazienza riuscimmo a produrre, dopo vari tentativi, la prima “pistola ad aria”. Dammo alla luce il miniministen.
Ma la rivoluzione portò altri vantaggi: non solo avevamo un’arma potente e maneggevole, avevamo anche un fucile molto più facile e rapido da caricare rispetto agli arbaletes coi quali pescavano francesi e spagnoli. Fu un gran successo. Dopo il minimini, fu la volta del ministen, poi il medisten, lo sten e così via fino al supersten.
La loro efficacia prese il sopravvento sul mercato, le vendite salirono ed i successi con loro. Con un medisten potevi pescare tutto in gara. Visto che la tecnica della pesca in tana era la più redditizia un fucile di 70 cm, con regolatore di potenza, non lasciava possibilità di appello. Potevi trovarti davanti il cernione o il saragotto e non avevi problemi di sorta. Fu un impronta indelebile per il panorama della pesca in apnea.
Davvero interessante. Poi arrivò la pinna lunga, ricordo. Questo fu davvero un’idea alla quale sei molto legato, vero?
Sì. Devo dire che l’idea della pinna a pala lunga fu il progetto al quale sono più legato. Avevamo pinne ridicole. Corte, in gomma morbida e scendere a 25/30 metri (ma soprattutto risalire) era una fatica pazzesca. L’idea mi venne un giorno parlando coi carabinieri della Nazionale di nuoto pinnato. Erano fortissimi, imbattibili ma, quando andavano a gareggiare in Russia venivano sempre bastonati. Il maresciallo mi parlò di queste pinne che usavano gli atleti dell’est: lunghe, con pale plastificate o di altro materiale legato (fissato alla bella e meglio) ai longheroni. Cominciai a lavorare sul un progetto simile. Come al solito ne parlai con Mares ed i suoi collaboratori. Spiegai le miei idee e buttammo giù un progetto. Fu difficilissimo riuscire a fare qualcosa di buono. Innanzitutto mancava lo stampo ed il macchinario che potesse fondere e solidificare tutta quella gomma. Quando, finalmente, riuscimmo a produrre lo stampo, avemmo grossi problemi con le temperature di fusione. Non sembrava mai di riuscire a trovare il calore giusto. Venivano fuori sempre delle bolle nella gomma che creavano problemi di compattezza.
Ci lavorammo per mesi e mesi ma, alla fine, vennero alla luce il primo paio di Concorde. Così le chiamai. Perché, appena le provai, mi sembrava di volare. Non fu un progetto definitivo il primo. C’era ancora da lavorarci per migliorale, per renderle, più efficaci, costanti. Più robuste. Ma alla fine ci riuscimmo. Fu proprio al Mondiale che vinsi nel 1969 Eolie che esordirono. Ricordo che avevo fatto fare pure una sacca per trasportarle e che quando gli amici americani le videro mi dicevano, simpaticamente, che le avevo fatte per arrivare alle loro altezze (erano veramente dei ragazzoni alti). Alla fine del Mondiale ero proprio soddisfatto. Quel progetto “pinna lunga” mi convinse che avevo realizzato una gran cosa. Le discese e le risalite in quelle acque cristalline a quasi 35 metri erano diventate un po’ più sopportabili.
Ci parli anche della maschera per eccellenza. La mitica Ventosa?
Una storia buffa. Eravamo a circa metà anni ’60 e, come ogni anno, c’era la fiera della subacquea a Genova. Io ero come sempre con Mares, poi c’erano, Tecnisub, Cressi sub e via dicendo. Si presentavano le novità e si prendevano gli ordini per i mesi successivi. Noi non avevamo grosse novità, quantomeno non importanti, ma venimmo a sapere che la Cressi aveva prodotto una maschera specifica per l’apnea. La Lince. Fummo presi un po’ in contropiede in quanto era una bella rivoluzione. Non esitevano maschere specifiche e noi eravamo Mares, concorrenti di Cressi ed i nostri clienti non dovevano essere delusi. Il primo giorno quando, ci chiesero se anche noi avevamo prodotto una maschera specifica per l’apnea, ci accordammo per rispondere in maniera positiva ma che l’avremmo avuta disponibile solo il giorno dopo in quanto i nostri progettisti dovevano sistemare alcuni piccoli dettagli.
Non era vero e, chiaramente, la notte ci riunimmo per cercare di tirare fuori qualcosa dalle nostre idee. Prendemmo una maschera classica e cominciammo a lavorarci sopra con forbici ed altri strumenti. Non ricordo bene quante maschere e gomma consumammo, ma alla fine, il mattino successivo, avevamo il prototipo pronto. Era addirittura autocompensate. Con in mano questa pesudo-maschera di una delicatezza infinita visto l’assemblaggio dei pezzi fatto a mano decidemmo di esporla comunque come progetto definito. Naturalmente la mettemmo in una teca per non farla toccare a nessuno (sarebbe andata in pezzi) ed, il giorno successivo, prendemmo gli ordini. Una volta rientrati Rapallo cominciammo a lavorare alacremente al progetto e dopo poco la Ventosa fu pronta. Riuscimmo a soddisfare tutti gli ordini ed a creare una maschera “mitologica”. Peccato ora non si trovi più lo stampo per quel che ne so. Ancora adesso darebbe soddisfazioni. Penso rimarrà una delle maschere più usate e vendute di sempre per la pesca in apnea.
Torniamo all’agonismo caro Massimo. Dal 1966 al 1975. Cosa interruppe la tua carriera?
Un incidente venatorio. Nel 1974 durante una battuta caccia fui colpito accidentalmente da un pallino in un occhio e si complicò tutto ulteriormente.
Mi spiego meglio: fin dall’inizio della mia entrata nell’agonismo e, soprattutto, in seguito ai miei precoci successi mi resi conto che l’ambiente intorno a me era quantomeno ostile. Avevo qualcuno che mi metteva sempre i bastoni tra le ruote e pochi, quasi nessuno, che mi aiutava. Ebbi subito scontri in Federazione, nel mio circolo, nella Nazionale eccetera al punto che gareggiai anche da indipendente (una volta si poteva). Una situazione imbarazzante e pesante. Poi io sono anche un carattere introverso e, quando non gradisco le cose, mi chiudo ancor di più in me apparendo distaccato e taciturno. Questo non agevolava ma non era il problema oggettivo, obbiettivamente.
Posso dire con chiarezza e certezza che tutto ciò che ho fatto nell’agonismo e per l’agonismo è frutto di una grande passione e di una eccellente caparbietà. Nonostante tutto sono sempre andato avanti a testa alta e per la mia strada. Ho fatto tutto da solo e solo con una piccola azienda a sostenermi più un paio di persone dell’ambiente a cui rimarrò legato per sempre. Persone che ormai non ci sono più ma che sono state le uniche che hanno provato a convincermi a proseguire e mi sono state di conforto. Il resto era solo una facciata. Ripeto, l’incidente del 1974 fu la goccia che fece traboccare il vaso, ma l’arresto durante i Mondiali dell’anno prima in Spagna, nel 1973, a Cadaques solo per impedirmi di visionare il campo gara fu un oltraggio gratuito insopportabile.
Ma, scusa, come funzionava una volta: non c’era la preparazione dei campi gara come ora?
Guarda, la preparazione era così fatta: per le gare Nazionali si visitava il posto 3/4 giorni prima, per quelle Internazionali andava bene se arrivavi il giorno prima. Ma non era una questione legata a regole e tempi, è che proprio personalmente non avevo l’assistenza economica o territoriale per preparare, capisci. La mia fortuna era proprio il mio istinto che mi permetteva di trovare, in poco tempo, zone importanti per portare a termine le mie gare con successo. Il resto proprio non esisteva. Poi, certo, poteva accadere che trovavi sul posto un tuo ammiratore che ti mostrava alcuni posti interessanti in maniera del tutto disinteressata e solo per darti un aiuto. Tutto qua. Ma poi erano solo problemi di Scarpati.
Comunque, per tornare all’arresto di Cadaques, dagli Spagnoli era stata preparata una trappola ad hoc. Per una regola scritta tra quelle previste per una competizione avevano inserito un articolo per il quale il campo gara non poteva essere visionato da nessuno prima dei tre giorni antecedenti alla competizione. Cioè gli Spagnoli dovevano vincere. Punto.
Io, forse per la prima volta, andai in zona 15 giorni prima accompagnato dal rappresentante della Mares in Spagna. Mi lasciò lì, in albergo, e poi tornò ai suoi lidi. Io volevo fortemente un altro Mondiale, mi ero preparato con cura e puntiglio come al solito ma trovai una situazione che sapeva di presa in giro. Tutte le strade, le spiagge i posti dai quali poter entrare erano tappezzati di cartelli con scritto che era vietato preparare i campi gara. Peraltro vedevo gli Spagnoli uscire presto sui campi gara tutti attrezzati, idem i francesi, gli americani e così via. Chi palesemente, chi “sotto copertura”.
Un giorno decisi che era ora di finirla e mi buttai da una spiaggia per poi andare, così, chissà dove. Fui visto, segnalato, recuperato dalla polizia locale e messo in galera. Mi trattennero per un paio di giorni e poi mi fecero sapere che ero stato squalificato. Non ci potevo credere! Solo il giorno prima, mentre stavo per tornare a casa, mi dissero che se volevo potevo fare la gara. Anzi, per la verità, lo dissero al mio Capitano. Insomma questo è il capitolo vero di una pagina tragicomica dell’agonismo subacqueo. La gara la feci ed arrivai pure secondo ma, dentro di me, qualcosa morì per sempre.
Che fucili usavi, generalmente, in gara?
Avevo sempre due coppie di medisten, di sten e si supersten. Tutte regolate con sensibilità del grilletto uguale per non avere problemi di sparo nei cambi. Tranne un medisten che usavo con la fiocina per sarghi, corvine e labridi, gli altri erano muniti di arpione doppia aletta e molto carichi.
Il medisten per il pesce bianco, a differenza degli altri, era praticamente scarico ed i denti di ritenzione della fiocina limati fino a farli quasi sparire. Infatti mi serviva per sparare anche tre , quattro colpi in un’immersione al fine di agire velocemente. Sparavo, staccavo il pesce, ricaricavo, sparavo nuovamente e così via. Fino ad ottimizzare l’apnea con più catture.
Usavo anche un altro accorgimento: una sagola corta, circa 80 cm, che non agganciavo allo sganciasagola ma lasciavo libera in modo da armare più velocemente. Un sistema che avevo ingegnato in allenamento. Efficace davvero! Il resto dei fucili erano per le cernie. Usavo spesso lo sten. Ma anche il medisten risolveva le situazioni più complicate coi cernioni.
Quale è stata la tua più grande delusione in competizione (Cadaques a parte, ovviamente)?
Ho perso diverse gare importanti per pochi punti o per un pesce di mezzo chilo perso malamente o per indecisione ma, nuovamente nel 1975, mi capitò un’avventura che ancora ora, se ci penso, mi torna su dallo stomaco e mi si ferma in gola.
Avevo già perso la vista dal famoso occhio e c’era la Coppa dei Campioni da disputre ad Ustica. Ustica per la pesca sub agonistica era un po’ come Wimbledon per il tennis, il Bernabeu per il calcio eccetera. Tutti ambivano a partecipare e vincere quella gara. I fondali splendidi, selettivi, e la ricchezza ittica del posto erano straordinari. Pur col mio limite mi preparai adeguatamente alla competizione. Più fisicamente che sul campo visto che tutti conoscevano la zona ed i posti buoni e, alla fine della gara, feci un gran bel carniere di cernie e diverso pesce bianco. Era, decisamente, un cavetto vincente a detta di tutti.
Era talmente bello e ricco che, come si usava fare una volta, venne esposto a lungo per farlo ammirare ai presenti e pesato per ultimo. Io dissi al mio Capitano che era un rischio perché il sole era cocente ed avrebbe asciugato i pesci facendoli diventare molto più leggeri. Non fui ascoltato e il mio cavetto rimase lì per almeno 5 ore. Quando mi pesarono i pesci erano secchi come lo stoccafisso e persi per 200/300 grammi. Ci rimasi troppo male. Pazienza perdere da uno più bravo, più forte, come già mi successe, ma così fu l’ennesima beffa. Provai l’anno successivo a fare gli Assoluti ma dopo neanche un’ora abbandonai e mi ritirai. Non avevo più stimoli.
Ti capisco. Certe cose sfiancherebbero anche un mulo. Ma veniamo all’agonismo odierno. Tra poco ci sarà un Europeo in Croazia conosci quei posti?
Quando sento parlare di Europei mi viene sempre in mente quello che vinsi a Kilkee in Irlanda nel 1974. Che tempi. Avevo studiato tutto alla perfezione. Avevo settato il fucile in modo chirurgico con l’intenzione di fulminare i merluzzi che sennò, infilandosi nelle lunghe alghe laminarie, mi avrebbero fatto perdere tempo prezioso nel recupero. Il fucile era un laser e la cosa mi riusciva praticamente ogni tiro. Bellissimo. Tornando al discorso dell’ Europeo odierno conosco Lussino e zone limitrofe. Ci ho fatto diverse gare. Una volta erano piene di pesce bianco: orate, saraghi corvine e labridi oltre a gli enormi gronghi. Non so adesso com’è la situazione ma, certamente il grongo rivestirà una parte importante nella competizione. Inoltre è un pesce di difficile interpretazione. Enigmatico, ostico direi. Nonostante sembri facile.
Per ragguagliarti ti posso dire che di gronghi se ne potranno catturare solo 5 e, per essere validi, dovranno pesare almeno 3 chili.
Ma, guarda ti posso dire che è molto più facile sparare una mostella, un sarago o una corvina che un grongo. Innanzitutto è quasi impossibile fulminarlo. Poi è forte, resistente e spesso vive in zone fangose e, se non si estrae subito, il rischio di non recuperarlo e perdere tempo è alto. In più ritengo che non ne troveranno molti a 15/20 metri quindi si dovrà andare a cercarli a 30 e più metri. Insomma sparare a un animale vitale di 15/20 chili a 35 metri non è certo una passeggiata di salute.
Si dovrà valutare ben la situazione prima di premere il grilletto. Centrarlo bene nell’occhio e tirarlo fuori subito. Personalmente userei un medisten con arpione. Questo chiaramente in linea generale.
Poi ci sono tante varianti dipendenti dalla posizione, dalla grandezza eccetera. I nostri comunque sapranno come fare e potranno fare sicuramente una bella gara anche se ritengo che i Croati saranno favoriti oltre che per la loro forza anche per il fatto che avranno preparato a lungo la zona e la conosceranno palmo a palmo. In bocca la lupo comunque.
Ci racconti la cattura complicata di una cernia in gara?
Si. Ero proprio a Ustica in una di quelle famose gare. Ero sul Secchitello, posto famoso, con cappello a 24 metri e base a 32/33 metri. Mentre scendevo la notai muoversi verso la base e proseguii il tuffo cercando di fulminarla in caduta. Ma capii quasi subito che sarebbe stato difficile in quanto notai dal comportamento che era smaliziata. Feci due o tre tentativi ed alla fine riuscii colpirla dopo un lungo agguato ma non a fulminarla. Per ragioni di sicurezza mollai il fucile e risalii. Mi ci volle più di un’ora di sali e scendi altri due colpi e l’uso del raffio per tirarla fuori da un altro buco. E non era neanche un pescione. Era una decina di chili. Ma che fatica.
A proposito della cernia, so che tu attraverso esperienze dirette e attente osservazioni, hai elaborato una interessante teoria a proposito di questo pesce sempre ed a volte pure troppo discusso?
Tutti sappiamo che le cernie brune sono una specie ermafrodita proteroginica. Ad una certa età è femmina e poi diventa maschio. Non sto a precisare le fasce di età del dimorfismo sessuale anche perché in realtà non sono riuscito a determinarle ed anche scientificamente non credo ci possano essere certezze.
In ogni caso esiste naturalmente un cambiamento di comportamento conseguente alla fase sessuale che attraversa. Ho avuto la possibilità di trovare molte femmine raccolte nei pressi di un grosso maschio . Talvolta ho pescato grosse cernie con le uova. Questo mi fa pensare che non tutte le cernie diventano femmine ad un certo peso. Credo in una certa situazione ambientale nella quale esistono tante femmine e non tutte diventano maschi raggiunta l’età, ma solo uno o due esemplari sufficienti a soddisfare i processi riproduttivi delle femmine in loco. Per questo motivo sono sempre stato contrario alle leggi che obbligano la pesca a non prelevare i giovani esemplari mentre saremmo autorizzati a prelevare tutti i grossi esemplari in grado di riprodurre.
Basta immaginare il danno che si crea ammazzando un grosso maschio in un consesso di tante femmine pronte ad emettere le uova. Esiste un altro maschio pronto a sostituire quello venuto a mancare? Non lo sappiamo probabilmente si perde il ciclo riproduttivo prima che si crei un nuovo equilibrio. Nel dubbio di questi fenomeni ecologici che la scienza non ha ancora risposte certe forse è meglio preservare i riproduttori. Anche perché la selezione naturale fa una strage dei giovani esemplari e non tutti raggiungono la maturità sessuale e pertanto se ne preleviamo solo alcuni abbiamo sempre la certezza che rimangono esemplari in grado di riprodursi.
In effetti credo che tutti i piani di abbattimento consentiti per i pesci siano frutto di una non conoscenza dei processi ecologici a livello scientifico per cui si cerca di proteggere i piccoli esemplari anche perché carini e simpatici e consentire i prelievi dei grossi .
Spero si arrivi ad una conoscenza ben più approfondita del patrimonio ittico e dei processi evolutivi per poter un giorno stabilire che possono essere prelevati un certo numero di esemplari giovani , femmine o grossi maschi. Forse è una mia utopia ma è anche vero che non conosciamo ancora bene il nostro mare.
Relativamente ai comportamenti ancora molto è da scoprire , nei confronti dell’uomo esistono pesci diffidenti e pesci meno. Nelle aree marine ti vengono a mangiare nelle mani, altrove sono difficilissimi.
Ho potuto assistere allo spettacolo nel momento in cui un grosso maschio fecondava a mezz’acqua le uova emesse dalle femmine e ne sono rimasto colpito e ciò talvolta ha cambiato il mio comportamento presso questi pesci quando mi accorgevo che non era il caso di infierire.
Talvolta penso che se qualcuno preleva anche un giovane esemplare sarà anche contro legge ma potrebbe sentirsi a posto con la sua coscienza ecologica.
Tu che sei stato sia uno che l’altro trovi che ci siano analogie tra la caccia terrestre e quella subacquea?
Sicuramente. Sono la stessa cosa svolta in due ambienti differenti. Quella terrestre ha bisogno di intuito, fiuto e conoscenza come quella marina. Le catture sono fatte coi soliti mezzi. C’è selettività in entrambe e gratificazione. Vedere un cane che “lavora” un animale è qualcosa di straordinario. Un fagiano o un sarago hanno la stessa possibilità di fuga o di cattura. Si, insomma cambia poco o nulla per me.
Concludiamo con i tuoi pesci “più pesanti”?
Cernia 32 kg
Dentice 13.3 kg
Spigola 12.6 kg
Ricciola 42 kg
Leccia 19 kg
Tonno 70 kg
Sarago 2 kg
Orata 6 kg
Ombrina 8 kg
Grongo 18 kg
Labride 1.5 kg
Pagro 5 kg
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